Dinamiche professionali ed etica nei rapporti con gli Enti pubblici – Avv. Felice Lorusso
Quando il direttivo della Camera amministrativa mi ha proposto di tenere -nelle intenzioni dell’invito, con altri cari colleghi- una conversazione su temi di carattere “deontologico”, ho accettato con un misto di piacere e preoccupazione. Piacere perchè ovviamente il confronto sui temi della vita professionale è sempre arricchente e stimolante. Preoccupazione perchè non è facile sintetizzare in un incontro, quale che sia il tema specifico, le tante sensazioni, preoccupazioni, vere e proprie angosce che accompagnano oggi la nostra vita professionale.
Quando poi ho appreso che nell’incontro sarei stato solo e che il tema sarebbe stato definito nei termini che conoscete, la mia personale preoccupazione si è accresciuta, per il timore di non essere pari al compito, ma nello stesso tempo è intervenuto il piacere unito all’ansia di esprimere il risultato delle riflessioni che decenni di vita professionale, di vita tout court direi, hanno indotto, e che almeno in parte vorrei esprimere a colleghi certamente in grado di apprezzare ed arricchire le riflessioni che sto per partecipare.
Naturalmente delle questioni che tratteremo si è parlato tante volte, forse senza l’organicità di un discorso compiuto, ma con la passione e la sofferenza di chi, come noi, vive sulla propria pelle le contraddizioni anche amare di un momento difficile e per tanti versi ingrato. Con Franco Gagliardi La Gala e con tanti amici abbiamo parlato e sofferto insieme, constatando come il “mondo” nel quale viviamo abbia assunto caratteristiche del tutto diverse da quelle che ci aspettavamo, e gli orizzonti che noi ci prefiguravamo nella nostra vita professionale sono scomparsi dalla nostra vista, sostituiti da quel che oggi ci sembra il buio di una notte di cui non si percepisce la fine.
E’ significativo che questi discorsi, una riflessione critica sul nostro passato, vengano fatti nella sede del Consiglio dell’Ordine. “Siete ritornati alla casa comune”, ci ha detto in presentazione il Presidente Stefanì, salutando il fatto che, per circostanze “esterne” che dovremo (dovremmo!) chiarire, un incontro organizzato dalla Camera Amministrativa si tenga non come di consueto al Tar ma nella sede del nostro Consiglio. Organo che, dimostrando lungimiranza e sensibilità , si fece promotore oltre venti anni fa della costituzione della Camera Amministrativa, ospitando nella sua sede gli incontri preliminari e preparatori alla sottoscrizione dell’atto costitutivo di una delle prime associazioni di avvocati amministrativisti. “Siamo ritornati alla casa comune”, rispondo io che non ho mai condiviso quelle spinte alla separatezza degli amministrativisti dall’insieme generale degli avvocati, che molti andavano proponendo, in funzione di una specificità che, alla lunga, ha nuociuto a noi amministrativisti ed agli avvocati in generale. Ed ha nuociuto per ragioni che in qualche passaggio cercherò di enunciare.
Orbene, nell’illustrazione del tema dovremo attraversare circa 40 anni di storia professionale. Sono quaranta anni di storia del paese, non solo di una categoria professionale, anzi di una piccola porzione della categoria degli avvocati. Si tratta di un periodo lungo, caratterizzato da un’evoluzione non sempre lineare, anzi piuttosto “incoerente”, caratterizzata da discontinuità rilevanti. Di un periodo che va dall’inizio degli anni ’70 ad oggi, in cui si passa dall’euforica esaltazione per l’avverarsi del tempi nuovi, all’attuale depressione per la percepita assenza di fattori propulsivi, di ottimismo istituzionale, di una visione che sorregga il passaggio verso un futuro di cui non intravediamo i segnali.
Colloco l’inizio della storia al principiare degli anni ’70, i cui esordi furono caratterizzati dalla legge istitutiva dei Tar, in parallelo a quella di riforma dei ricorsi amministrativi, perchè prima di allora non si poneva in alcun modo il tema del rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione, di un rapporto formalizzato e regolato secondo le forme ed i riti del processo. Solo nel momento in cui al cittadino fu insegnato che l’Amministrazione pubblica poteva essere portata a processo, che non era più necessario risalire controcorrente l’insidioso torrente dei ricorsi gerarchici, si aprirono gli orizzonti, politici e culturali prima, professionali poi, del confronto dialettico regolato dalla legge. E solo allora si manifestò l’esigenza di una classe professionale che fungesse da intermediatore culturale e politico del conflitto.
Gli avvocati interpretarono un’esigenza storica ed un’istanza politica, che non consisteva soltanto nell’offrire “la difesa”, nel che stava e sta ovviamente il proprio compito “naturale”, ma innanzitutto nel creare una “cultura” del conflitto istituzionale, della possibilità di affrontare e possibilmente risolvere dialetticamente, in una sintesi ragionevole, il confronto fra diritti e posizioni tutte meritevoli di considerazione ed in egual modo abbisognevoli di tutela, secondo la Costituzione.
La figura, la funzione e la persona dell’avvocato hanno assunto il ruolo di interprete e tramite necessario del conflitto e del confronto. Nell’ambito di regole che non esistevano o che non venivano applicate; che, almeno, non venivano adeguate alle esigenze proposte da tempi nuovi. E che richiedevano una disciplina ed una cultura non solo del conflitto processuale, ma del rapporto fra le parti di quel processo e, più in generale, del confronto che doveva attraversare non solo la storia dei diritti ma la trasformazione politica del paese. Non è un caso che furono iniziative assunte nell’ambito dei primi anni di processi amministrativi a portare nel ventesimo secolo un rito che si era andato modellando su esigenze del secolo precedente: sto pensando all’autonomia concettuale e processuale della tutela cautelare, al suo doppio grado, che la legge neppure ipotizzava, al giudizio di ottemperanza, a molti altri istituti che, prima neppure presenti o mal utilizzati, divennero costume professionale e patrimonio comune del Giudizio amministrativo.
Dobbiamo ricordare che vivevamo gli anni 70. Decennio di fortissime innovazioni. Sto pensando alla istituzione delle Regioni; ai decreti delegati della scuola; alla riforma sanitaria che fondò il sevizio sanitario nazionale; all’introduzione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego; alla legge Basaglia, che -ad onta di un oggetto apparentemente limitato e settoriale- segnò un discrimine essenziale nel rapporto tra cittadino ed istituzione sociosanitaria, introducendo un principio antiautoritario che ancor oggi fatica a farsi strada.
Tutto il tumulto provocato da queste innovazioni legislative ed istituzionali impattò su di una struttura dello Stato e degli enti pubblici che definire antiquata appare riduttivo. Il nostro modello di amministrazione ad ogni livello, le procedure operative, la organizzazione gerarchica erano ancora quelli postunitari. Era facile immaginare che l’impatto delle innovazione sarebbe stato difficile da digerire per sistemi imperniati su regole antiche, evidentemente fuori corso rispetto alla storia. Epperò abbiamo continuato a lavorare per molto tempo con quelle regole. Ancor oggi mi chiedo com’è stato possibile operare con enti locali disciplinati da testi unici di inizio secolo, mentre l’ordinamento regionale recepiva funzioni ed uffici dello stato ma doveva operare “applicando” i settori organi del dpr 616/1977, e tutti questi soggetti dovevano dialogare tra di loro mentre interveniva la rivoluzione dei servizi sociosanitari della legge 833 del 1978, e si sperimentavano nuovi modelli di amministrazione come le unità sanitarie locali.
Ricordo di aver concorso, sul finire degli anni ’70, a reperire il materiale e le informazioni necessarie per una ricerca sul personale delle Regioni. Ebbene si registrò un dato: all’inizio della loro esperienza le regioni cercarono di mutuare i modelli organizzativi presenti “sul mercato”; il particolare, la Puglia tentò di utilizzare quello del suo comune più grande, chiamando ad operare presso le sue nascenti strutture i dirigenti più in rilievo; i quali però tornarono immediatamente al punto di partenza per la difficoltà , personale ed ideologica, quindi istituzionale, di ricoprire ruoli ai quali non erano preparati. Mentre interi uffici trasferiti “in blocco” dallo stato tentavano di riprodurre in modo “immobile” -quasi che il tempo si fosse fermato- i meccanismi a cui da sempre erano abituati.
E’ evidente che occorreva che qualcuno, all’esterno del sistema ma di questo compreso ed avvertito, svolgesse il ruolo taumaturgico di promotore del cambiamento. Di interprete del nuovo ma di traghettatore dell’antico verso i nuovi destini. Nel confronto con una classe politica a sua volta rinnovata, che non sempre rispondeva a logiche sperimentate.
Questo ruolo fu svolto da professionisti esterni alla politica, quasi sempre avvocati -talvolta accademici, più spesso liberi professionisti- che utilizzavano l’esperienza e la cultura maturata sul campo per veicolare i nuovi modelli di politica e di amministrazione. In ciò servendosi di un’esperienza che si andava maturando, per il tramite delle aule giudiziarie dei Tribunali amministrativi, nel ruolo di difensori e consulenti di tutte le parti “in commedia”. La percezione della complessità del rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione, favorita dall’esperienza processuale e dalla dialettica che lì si andava sviluppando fu l’atout che consentì ad una classe di professionisti di valore ed ai loro allievi di svolgere il ruolo di facitori di una cultura del confronto e nel contempo di veicolo del cambiamento. Devo dire che all’epoca il neonato sistema dei Tar fu -almeno in un primo tempo- recettivo rispetto alle novità che si andavano prospettando. Sembrò affacciarsi un’epoca nuova, caratterizzata dalla tendenza verso la democratizzazione dei rapporti e la partecipazione come metodo di formazione del pensiero politico e della volontà amministrativa.
Di questo, forse pure disordinato, fervore, si giovò anche la giustizia, che dall’ingresso di tanti nuovi protagonisti potè trarre linfa per la modernizzazione del sistema. Dai reggitori l’istituzione dei Tar era stata concepita come la creazione di una sorta di dèpendance del Consiglio di Stato, un luogo deputato alla “scrematura” delle grandi questioni che poi sarebbero state affrontate a Palazzo Spada, con l’atmosfera rarefatta e paludata che lo caratterizza(va). Si può immaginare quale fu la sorpresa prima e lo sconcerto poi nel verificare che l’affacciarsi prorompente di tanti nuovi protagonisti, del tutto inattesi, andava sconvolgendo il sistema; che emergeva una rete non solo di soggetti fisici, ma di istanze e di diritti che reclamavano tutela; che le categorie consuete a stento comprendevano -tanto meno regolavano- fenomeni del tutto nuovi sulla scena del confronto giudiziario. Oggi ci sembra di parlare di cose ovvie, ma ricordo ancora la sorpresa (del cittadino) e lo sconcerto (del burocrate) quando si scoprì che c’era un Giudice che poteva annullare una bocciatura scolastica, l’esito preordinato di un concorso pubblico, un esproprio fatto per ragioni diverse dalla pubblica utilità . Ricordo la sorpresa del mondo della cultura giuridica dell’epoca quando qualcuno rivendicò -fondatamente- la generalizzazione del doppio grado di giudizio, l’esercizio “allargato” della tutela cautelare, e la possibilità che -in questo ambito- le decisioni di primo grado fossero riconsiderate dal giudice d’appello, i poteri istruttori del tribunale per formare e acquisire la verità processuale nel confronto dialettico fra le parti arbitrato dal Giudice. Occorsero non banali interventi adeguatori del legislatore e della Corte Costituzionale, fu necessario uno sforzo di cambiamento assolutamente rilevante, anche perchè del tutto inatteso da un corpo professionale che non era stato preparato a reggere l’impatto, e che doveva utilizzare corpi normativi pensati per altri scopi, altre epoche ed altri processi.
L’avvocato diventò quindi il protagonista della evoluzione del rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione. Si badi: tutto ciò non solo nella sua qualità di difensore, tanto del privato che dell’ente pubblico. Ruolo che pure significò molto per la qualificazione della figura professionale dell’avvocato. Ma anche, se non soprattutto, come consulente. In questa funzione egli diventò un vero e proprio facitore della nuova cultura della pubblica amministrazione, di traghettatore del cambiamento dal vecchio al nuovo sistema.
Rammento che nei tempi a cui ci stiamo riferendo il ruolo dell’avvocato solo sporadicamente si limitò alla difesa della parte, pubbblica o privata che fosse. Il professionista assunse la funzione di protagonista della evoluzione, di traghettatore del cambiamento, di interprete delle novità che si erano affacciate sulla scena senza apparente organicità , secondo un disegno apparentemente casuale, che solo più tardi avrebbe assunto un assetto organico.
In queste vesti l’avvocato svolse più parti in commedia. Il difensore innanzi tutto. Il consulente, talvolta stabile, delle amministrazioni pubbliche, in specie locali. Ma anche il legislatore, allorquando si trattò di coadiuvare la Regione nella redazione di testi di legge regionale di importanza fondamentale. Infine, di amministratore vero e proprio, nella qualità di “progettista” dei procedimenti amministrativi necessari per fronteggiare le nuove funzioni o, molto più banalmente, di redattore degli atti amministrativi fondamentali, essendo all’epoca inadeguata la capacità delle strutture di esprimere i valori politici degli atti o di evitare “errori” ricorrenti, che la conoscenza del sistema e della giurisprudenza consentiva ad alcuni avvocati di superare.
Ho anticipato che molti, non tutti, i professionisti provenivano dall’accademia. Molti si formarono traducendo in modelli operativi nuovi l’esperienza che andavano facendo attraverso un’attività composita, a formare la quale concorrevano la cultura e la sensibilità personale, l’esperienza forense, il rapporto con l’amministrazione, la partecipazione – a vari livelli- alla vita politica o il contatto con questa.
Il periodo al quale mi sto riferendo fu caratterizzato da intenso lavoro, animato da un fervore veramente notevole, che oggi fatico -ahimè- a ritrovare.
Le opportunità per i pochi specialisti furono molte, talvolta ghiotte. Alcuni di noi poterono anche realizzare guadagni significativi, il che non mancò di suscitare la diffidenza se non proprio l’ostilità del rimanente ceto forense. Questo, abituato a considerare il ruolo dell’avvocato esclusivamente come difensore, nell’ambito di controversie di valore non sempre significativo, di causidico, secondo un’antica deteriore tradizione, in un mercato già asfittico e congestionato, guardò con diffidenza alla nuova figura di professionista che si andava prepotentemente affacciando, sollecitando un confronto per molti non sostenibile. Diffidenza che non mancò di manifestarsi nei luoghi istituzionali del confronto professionale, ovverossia nei Consigli dell’Ordine, che si dimostrarono veramente incapaci di comprendere e disciplinare le nuove dinamiche professionali che la figura dell’avvocato pubblicista aveva indotto. Ne fu dimostrazione la non ancora risolta questione della determinazione del valore delle questioni amministrative. Tutti i tariffari, compresi quello vigente, basati sul principio del valore economico della domanda, non sono (mai stati) adatti a regolare espressioni di attività professionali che non contemplano una richiesta economica diretta e quantificabile. E che però riguardano affari di un peso e di un impegno talvolta significativi, che il criterio del valore indeterminabile è inadeguato a compensare.
Emerse nel contempo la consapevolezza che esisteva un mercato, nuovo e potenzialmente importante; che vi era occasione di sfruttare opportunità professionali sconosciute prima; ma anche che vi era occasione per sperimentare nuove forme di clientela politica, spesso deteriore. Tutto ciò determinò l’immissione di nuovi protagonisti nel mercato professionale, non tutti di spessore. Emerse la figura del professionista la cui funzione principale consisteva nell’assicurare la “copertura” a scelte politiche non trasparenti, ove non proprio la complicità nel malaffare. Fu affermata a chiare lettere, senza reazioni degne di nota dai Consigli dell’ordine, la necessità che nell’affidamento degli incarichi le amministrazioni utilizzassero criteri diversi dal puro e semplice rapporto fiduciario, o dalla competenza specifica, affermando principi veramente stravaganti, come l’appartenenza anagrafica del professionista officiando ad una determinata comunità locale. Emerse “imperioso” il tema del costo della prestazione legale, e la sua compatibilità con le regole di bilancio. In verità il problema non era mai stato assente dal tema dei rapporti tra avvocati e pubbliche amministrazioni, tuttavia era stato risolto per lo più nell’ambito del rapporto personale. L’allargamento della platea dei professionisti “coinvolti” in queste vicende tuttavia rendeva meno “spontanea” la ricerca delle soluzioni, nel mentre le regole del bilancio e le restrizioni che si andavano imponendo alla finanza locale rendevano sempre più pressante la questione.
Cominciava ad affacciarsi quella che sarebbe divenuta la questione delle questioni: la prevedibilità del costo della prestazione. E cominciavano a determinarsi le condizioni perchè si proponesse una competizione sulla convenienza della prestazione professionale per l’ente nei cui confronti la stessa veniva effettuata.
Purtroppo la “competizione” si è svolta essenzialmente sull’elemento del costo della prestazione, mai o quasi sulla qualità della stessa. All’inizio della nostra storia il tema non si poneva, perchè la qualità stessa veniva data per scontata, derivando dalla notoria ristrettezza della platea del professionisti interessati, la cui “qualità ” veniva unanimemente riconosciuta perchè verificata nella pratica quotidiana e dal circuito “ristretto” degli utenti.
Ma l’accesso spesso incontrollato -e comunque divenuto incontrollabile- di nuovi soggetti alla fascia di mercato che ci interessa, l'”esplosione” degli albi professionali, invece di indurre le istituzioni interessate ad affrontare il problema ha indotto soluzioni “estemporanee”, se non proprio contrarie alla logica del sistema. Tutti gli strumenti ed i meccanismi di volta in volta utilizzati -se ne potrebbe fare una lista- hanno sempre eluso la sostanza delle questioni: quella della controllabilità delle prestazioni, evidentemente in tutti i loro elementi, e della verificabilità della stessa attraverso l'”esito” delle stesse ed i vantaggi, attuali e potenziali, che se ne possono trarre.
Tutto ciò s’incrociava con dinamiche nuove nel mondo delle prestazioni professionali. Dinamiche che traevano le loro origini dall’irrompere delle regole dell’Unione Europea e dei costumi sociali che dalle stesse derivavano. I professionisti intesi ora come imprese, soggetti come queste alle regole delle concorrenza. L’affacciarsi anche in Italia, sul mercato dei servizi legali, dei giganti, nazionali ed anche esteri, secondo modelli di economie più evolute della nostra ed attente al momento finanziario.
I temi in questione evidentemente non erano propri ed esclusivi del nostro mondo, e non riguardano soltanto i rapporti con le p.a.. Interessavano, come interessano, tutte le questioni del rapporto con la clientela “istituzionale”. Nel nostro mondo però erano e sono ancora più gravi, per la natura pubblica dei soggetti ed il rigore dei vincoli che li riguardano.
Nel contempo avveniva un profondissimo quanto repentino mutamento del “mercato” dei servizi legali. Il fenomeno più rilevante è stato l’ingresso dei giganti della consulenza, conformati su modelli americani o nordeuropei, capaci di una (almeno apparente) “potenza di fuoco” sconosciuta prima ma impossibile da contrastare per gli studi tradizionali. Epperò indispensabile per fronteggiare le necessità di un mercato nuovo con richiesta di prestazioni multidisciplinari, in tempi ristretti o contingentati, assai diverse da quelle di una volta. Si manifestava altresì la necessità di confrontarsi con tematiche nuove: in particolare, la dimensione europea, l’ingresso di principi giuridici sovranazionali, l’adeguamento -in certi momenti vorticoso- dell’ordinamento nazionale a necessità sopravvenute, con l’istituzione di apposite autorità dall’ancora incerta qualificazione e natura, l’effetto apparentemente pervasivo dei principi così conclamati.
Sul piano delle prestazioni legali si assisteva ad un profondo mutamento dei criteri per la ricerca del professionista e per l’affidamento degli incarichi. Se gli stessi venivano affidati sulla base di un concetto di “fiducia” riferito all’Ente affidante, secondo meccanismi in cui prevaleva la collegialità della scelta e la continuità del rapporto, con una verifica “continuativa” della qualità della prestazione nell’ambito di un rapporto di lunga durata, successivamente la fiducia medesima si è trasformata nell’alibi “istituzionale” per affidamenti sempre più personalisticamente determinati. Liddove potevano prevalere criteri latu sensu clientelari, ovvero “preordinazioni” finalizzate (ebbene sì!) a risultati concordati in precedenza. Con quali risultati in termini di “trasparenza” e buona amministrazione è facile immaginare.
In queste condizioni e nel quadro che sinteticamente si è delineato non poteva tardare l’affermarsi di una concezione per cui l’incarico professionale doveva essere considerato come servizio pubblico, o reso al pubblico, e quindi nell’affidamento soggiacere ai principi della concorrenza procedimentalizzata, nel mentre gli spazi si andavano ulteriormente restringendo anche a causa della tendenza di molti enti, anche di dimensione non rilevante, alla creazione di uffici legali interni, necessariamente volti a ridurre spazi ed operatività degli affidamenti esterni, e nel contempo indotti a “regolamentare” rigidamente le condizioni per il conferimento dell’incarico e lo svolgimento della prestazione.
Il fenomeno meriterebbe di essere analizzato accuratamente, anche perchè ha inciso sul costume sociale e politico. Tuttavia, per quanto qui può servire, si è assistito alla trasformazione dell’Amministrazione pubblica, in specie locale, da contraente debole, che ha necessità di utilizzare un sapere non reperibile al proprio interno, a contraente forte, che può servirsi di una prestazione, dettandone le condizioni. Vien meno così il concetto ed il criterio di fiducia sottostante all’affidamento dell’incarico, basato sulla condivisione ed “appartenenza” comune degli obiettivi, sostituito da un criterio di fiducia fondato sul rapporto personale o su criteri personalistici, ovvero derivante dal procedimento di scelta del professionista.
Abbiamo assistito ad un vero e proprio terremoto, le cui scosse di assestamento non hanno ancora avuto termine. Le condizioni di svolgimento e di regolazione della prestazione sono mutate in modo significativo in un tempo brevissimo ed in modo che oggi sembra irreversibile. In questa temperie però abbiamo dovuto registrare l’assenza, o comunque l’insufficienza, di qualunque ruolo da parte dei Consigli dell’Ordine o comunque dell’Avvocatura organizzata, che non si è resa conto in alcun modo del mutamento che stava avvenendo sotto i nostri occhi. Soprattutto, non ha inteso che quel mutamento repentino avrebbe segnato in modo non più reversibile il modo di svolgersi del rapporto tra l’avvocato e la clientela che, con una semplificazione forse eccessiva, definirò “istituzionale”. Le dinamiche dei rapporti tra avvocati e pubbliche amministrazioni si sono riprodotte tal quali, se possibile con maggiore violenza, nei confronti delle banche, delle assicurazioni, delle grandi imprese. Si è determinata una divaricazione sempre maggiore tra due categorie di professionisti: un gruppo selezionato di “superavvocati”, e la generalità del proletariato professionale. I primi, destinatari dei grandi incarichi e delle questioni di rilievo. I secondi, affidatari delle piccole questioni, alla mercè del “cliente”, ovvero della sua burocrazia, ed utilizzati anche come “finanziatore” del destinatario della prestazione.
In questo rapido, repentino, sconvolgimento la grande assente è stata, ed è tuttora, la qualità della prestazione. Non si è mai preceduto alla determinazione dei criteri in base alla quale stabilirne l’effettività ; non si è mai proceduta ad invocarne in qualche modo la verifica, preventiva o postuma che fosse. La “concorrenza” fra i prestatori si è sempre svolta sul costo della prestazione e quindi sul prezzo della stessa, mai sulla qualità , attesa o sperata, della prestazione medesima. Rispetto al nuovo modo di conferire i mandati professionali, i curricula degli avvocati hanno svolto un ruolo di semplice presupposto, non di indice certificato e presumibile della capacità del professionista. Le Amministrazioni locali hanno proceduto alla creazione di albi, allo svolgimento di gare variamente organizzate, ad altri meccanismi, spesso “derogabili” in funzione di esigenze del momento, non sempre commendevoli.
Nel governo di questo sistema noi avvocati i siamo stati sempre assenti, per lo meno assenti sono state le nostre organizzazioni, la cui presenza e partecipazione invece avrebbe potuto molto giovare ad una “contrattualizzazione” -individuale o collettiva- dei criteri di scelta. Invece abbiamo assistito ad una regolazione veramente autoritativa del rapporto, secondo modelli conformati ad altre esigenze e spesso contenenti disposizioni in qualche caso sinceramente “offensive” per l’avvocato (epperò da tanti, per necessità o per ignavia, supinamente accettate).
Inutile dire ad avvocati “fatti”, anche giovani ma comunque esperti, che la prederminazione delle condizioni, ed in particolare del compenso, totalmente estranei alla tradizione della nostra professione, costituisce applicazione di principi di altri ambiti; se vogliamo riferirci al campo delle professioni, si tratta di situazioni regolate secondo i modelli di altre attività (in particolare, quelle tecniche, laddove si effettua attività di progettazione e costruzione, laddove la convenzione -redatta secondo varie forme- serve ad individuare “a priori” l’oggetto ed il contenuto della prestazione. Senonchè la prestazione professionale dell’avvocato non è rigidamente predeterminabile. Il suo oggetto (a differenza di un opus) non è identificabile a priori, il risultato è variabile in ragione di fattori non tutti sotto il controllo del professionista, così come variabili possono essere l’impegno ed il risultato.
Tuttavia oggi siamo condizionati dall’indirizzo assunto, ed esplicitato “coram populo”, dalla Corte dei Conti, che ha imposto agli enti locali la predeterminazioni assoluta dei compensi, altrimenti qualificando le somme non previste a priori come debiti fuori bilancio. Conosco diversi tecnici del settore, fra cui direttori di ragioneria di enti locali, che non condividono tale asssunto, ma tant’è! E pur tuttavia, se le cose non stanno proprio come sostiene la Magistratura contabile, perchè non sostenere una nostra, eventualmente diversa, opinione?
Nel frattempo la liquidazione dei compensi è divenuta motivo o di polemica politica, o di richiamo mediatico, “esposta” ai venti della pubblica opinione, visto che molti enti procedono alla pubblicazione sui propri siti dei compensi liquidati, in violazione delle regole minime del rapporto fiduciario e della riservatezza che lo deve comunque contraddistinguere. E senza l’enunciazione di un minimo di regole “comunicative” che possano indicare al pubblico (un pubblico spesso ignaro ed “incattivito”) modalità o criteri di decodificazione della valanga di informazioni che il sistema “vomita” acriticamente sul cittadino.
Il momento che viviamo è dunque critico e delicato. Non siamo in grado, almeno il sistema non è in grado, di percepire la direzione verso cui il sistema evolverà . Nel frattempo assistiamo a fenomeni -come le significative riduzioni degli albi- di cui percepiamo l’entità ma non comprendiamo cause ed effetti. Non riusciamo ad intravedere segnali di un sicuro orientamento verso nuove direzioni. Questo vale ovviamente per tutto il mondo dell’avvocatura e delle professioni liberali in generale, Vale ancor di più per noi che abbiamo come nostro seminato professionale il mondo delle pubbliche amministrazioni, a loro volta sottoposte a stress significativi in direzioni contraddittorie.
Come e dove trovare un segno di speranza? A questo riguardo le direzioni possibili sono due, ed entrambe necessarie da scrutare, onde percepire i segni degli sviluppi venturi. L’una riguarda l’avvocatura nel suo complesso, che deve decidere se rimanere ancorata ai suoi dogmi ed agli stilemi di un tempo, o proporsi l’obiettivo ed il metodo di una (assai significativa ed incisiva) autoriforma; nella consapevolezza -di cui non intravedo in verità segnali- che il mondo comunque la sua strada la troverà , e non faticherà a lasciarci irrimediabilmente indietro se non sapremo incamminarci nella giusta direzione. L’altra (che ovviamente dipende in gran parte dalla prima), si riferisce a noi amministrativisti: qui il discorso si fa più complesso e più “intimo”. E richiederebbe analisi più approfondite di quelle possibili in una breve, per quanto partecipata, retrospettiva. Eppure un obiettivo di metodo andrebbe perseguito: quello di una considerazione unitaria e complessiva dei problemi e degli atteggiamenti. Occorrerebbe in altri termini abbandonare quegli atteggiamenti e quei vizi secondo cui ognuno pensa al suo orticello, alla sorte del suo proprio “particulare”, per propugnare metodi di confronto tendenti alla promozione, e -perchè no- all’autodifesa, del gruppo e non (solo) del singolo.
Felice Lorusso