Dal recupero alla rigenerazione: l’evoluzione della disciplina urbanistica delle aree degradate.*
Francesco Follieri
Dottore di ricerca in Diritto
Amministrativo
* L’articolo è stato già pubblicato su www.giustamm.it
ABSTRACT
L’autore delinea l’evoluzione della disciplina
urbanistica delle aree degradate. La legislazione più recente si occupa del
degrado non solo dal punto di vista edilizio ed urbanistico (“degrado fisico”),
ma anche dal punto di vista sociale ed economico (“degrado immateriale”) di
alcune parti della città , secondo la nozione di “qualità della città “. L’autore
dubita, però, che la governance locale
sia in grado di far fronte al degrado “immateriale”, a maggior ragione se
agisce con strumenti pianificatori o programmi.
The author draws the evolution of urban regulation
about declined areas. The most recent legislation deals not only with building
and urban decline (“physical decline”), but also with social and economic
decline (“immaterial decline”) of parts of the city, according to the concept
of “city quality”. Author doubts that local governance can face “immaterial
decline”, even more if it acts by plans or programs.
SOMMARIO: 1. Recupero dei centri storici e recupero
del patrimonio edilizio esistente; 2. Degrado “fisico” e degrado “immateriale”.
Le sfide della rigenerazione urbana.
1.
Recupero dei centri storici e recupero del patrimonio edilizio esistente.
La tendenza ad una concezione meno
“consumistica”[1]dello sviluppo urbanistico ed edilizio non è recente. Questa concezione
privilegia il recupero o la riqualificazione dell’esistente, rispetto
all’urbanizzazione di aree libere. Tuttavia diverse sono le ragioni e, quindi,
l’oggetto, gli strumenti e i fini delle politiche urbanistiche che hanno
accolto questa “filosofia”.
Per molto tempo, infatti, il
recupero dell’esistente è stato inteso esclusivamente come modalità di intervento
sui centri storici[2],
dapprima al solo fine di conservarne il valore culturale, poi anche per
rivitalizzarli, cioè per restituirli alla funzione di fulcro della vita
cittadina[3]. In questo quadro
(esemplificato dalla l. n. 765/1967), il recupero ha di mira la tutela di un
patrimonio edilizio esistente per come esso è: ci si propone di conservare
l’esistente per il suo valore culturale[4]–[5]. Perciò, il
legislatore nel prevedere il recupero dei centri storici si avvale del regime
vincolistico per disincentivare la speculazione, limitato al centro storico
appositamente perimetrato: divieto assoluto di nuovi interventi edilizi nei
Comuni sprovvisti di strumento urbanistico, standards urbanistici di tipo
sostanzialmente conservativo da recepire negli strumenti urbanistici e, quindi,
notevole restrizione degli interventi possibili[6].
Con la legge n. 457 del 1978
l’ambito del recupero si amplia[7]: non più solo i centri
storici sono destinati al recupero, ma tutte le “zone ove, per le condizioni di
degrado, si rende opportuno il recupero del patrimonio edilizio esistente” che
“possono comprendere singoli immobili, complessi edilizi, isolati ed aree,
nonchè edifici da destinare ad attrezzature” (art. 27 l. n. 457/1978), anche rurali
(cfr. artt. 4, lett. a, 26 e 37 della l. n. 457/1978). A differenza del
recupero dei centri storici, il patrimonio edilizio da recuperare è di scarso
valore, destinato all’abbandono in favore di nuovi insediamenti. Il fine del
legislatore, cioè, non è conservare in senso stretto l’esistente, ma
riqualificarlo per evitare il consumo di nuovo suolo[8]. Il bene tutelato non è
(tanto) il patrimonio edilizio recuperato, ma il suolo libero.
Il cambio di prospettiva è
notevole: il recupero del patrimonio edilizio esistente è uno strumento per la
tutela del suolo, quale bene scarso che non si presta ad un utilizzo
“reversibile” (una volta urbanizzato, il suolo difficilmente può tornare allo
stato originario – la c.d. “impermeabilizzazione”)[9]. Perciò il legislatore fa
leva sull’appetibilità economica dell’investimento di recupero: oltre a
pianificare il recupero, lo si incentiva attraverso agevolazioni creditizie per
l’attuazione privata del piano (art. 33 l. n. 457/1978)[10] e attraverso la
previsione degli interventi di urbanizzazione ad esclusivo carico del Comune[11]. In altre parole, mentre
nel recupero del centro storico la speculazione è sgradita (il che conduce al
regime vincolistico), nel recupero ex l. n. 457/1978 il legislatore attrae la
speculazione[12],
anche se ne attenua gli effetti sul prezzo degli immobili[13].
Questi fini sono perseguiti dal
legislatore utilizzando schemi concettuali già noti. Il piano di recupero è,
infatti, un piano particolareggiato[14], ma soggetto ad un regime
speciale[15]:
per quanto non espressamente previsto nel titolo IV della l. n. 457/1978, si
rinvia alla disciplina dei piani particolareggiati (art. 28, c.4, l. n.
457/1978).
In particolare, il piano di
recupero del patrimonio edilizio esistente procede dall’individuazione delle
zone di degrado da recuperare. La l. n. 457/1978 demanda agli strumenti
urbanistici generali (successivi alla sua entrata in vigore[16]) o ad apposita delibera
del Consiglio Comunale[17] la delimitazione delle
aree da assoggettare al piano di recupero[18] e l’indicazione del
criterio di recupero, cioè la destinazione degli immobili recuperati[19]. Questa zonizzazione[20], a differenza dello
schema ˜zonizzazione- piano particolareggiato’, non ha l’effetto di subordinare
al piano di recupero ogni intervento edilizio nella zona. Il Comune, infatti,
deve individuare nello strumento urbanistico generale i singoli immobili, i gruppi
di edifici o gli isolati all’interno della zona per i quali il rilascio dei
titoli edilizi per il recupero è soggetto all’approvazione dell’apposito piano
(art. 27, c. 3, l. n. 457/1978). L’unico effetto immediato della zonizzazione (art.
27, c. 4, l. n. 457/1978), invece, è la “liberazione” degli interventi di
recupero di minore entità (manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e
risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia) dall’attesa dei piani
particolareggiati che, all’epoca, erano previsti quasi da ogni strumento
urbanistico generale come passaggio obbligato anche per gli interventi edilizi
minori sull’edificato.
In estrema sintesi il piano di
recupero non è richiesto per il recupero di tutta la zona appositamente
delimitata, ma solo per quelle aree di intervento appositamente individuate[21]. Solo in questo caso,
dunque, il recupero è subordinato: a) alla previsione di piano generale della
zona e delle aree all’interno della zona[22]; b) all’adozione del
piano di recupero; c) al rilascio delle autorizzazioni. Negli altri casi, si
tratta di interventi a carattere propriamente edilizio: la zonizzazione di
recupero non sempre impone un recupero integralmente programmato o un riordino
urbanistico vero e proprio; anzi lo impone solo se v’è l’apposita
individuazione di aree o immobili da recuperare previa approvazione del piano
di recupero.
Il piano di recupero di
iniziativa pubblica o privata[23] viene, poi, approvato con
delibera di Consiglio Comunale, con la quale si decide delle opposizioni presentate
e si approva l’eventuale convenzione con i privati promotori. Esso ha efficacia
triennale[24].
Gli interventi possibili (ad iniziativa pubblica o privata, eventualmente
agevolata) coprono tutta la gamma degli interventi propriamente conservativi: manutenzione
ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo,
ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica[25]. Quando l’attuazione del
piano è privata, tuttavia, è obbligatoria. All’adempimento dell’obbligo di fare
imposto dal piano[26] presiede il potere
sostitutivo dell’amministrazione nella realizzazione degli interventi. In ogni
caso di attuazione pubblica (diretta o in sostituzione), poi, l’amministrazione
dispone anche del potere di trasferire temporaneamente i residenti degli immobili
da recuperare.
La varietà e l’intensità degli
strumenti del recupero costituiscono, per quell’epoca, una novità nella
legislazione urbanistica. Una così ampia flessibilità di intervento, infatti,
era sconosciuta alla legislazione italiana ed è dai più giustificata con
l’estrema eterogeneità delle aree di intervento (è sufficiente che si tratti di
aree degradate – urbane o rurali – a qualunque vocazione – residenziale o
produttiva) e dei fini del recupero (residenziali, commerciali o artigianali)[27]. I poteri sostitutivi,
poi, implicano un effetto conformativo della proprietà molto incisivo: quando
l’amministrazione subentra al privato nell’attuazione dispone del diritto di
proprietà di quest’ultimo, anche se non ha imposto un vincolo preordinato all’esproprio
(che, invece, impone quando è prevista l’attuazione pubblica)[28].
La flessibilità e l’incisività
dei piani di recupero appena evidenziate non hanno ottenuto il risultato
sperato dal legislatore, in quanto limitate da altri caratteri dei piani di
recupero.
I poteri sostitutivi
dell’attuazione privata, infatti, implicano anche un grado di analisi del piano
molto elevato: perchè l’amministrazione possa sostituirsi al privato nel
recupero, l’intervento sul singolo immobile, sulla singola area o sul singolo
isolato deve essere già previsto nel tipo e nei contenuti. Se a ciò si aggiunge
l’obbligo di prevedere nel piano le risorse pubbliche messe a disposizione, la
scansione temporale del loro utilizzo, le unità minime di intervento e la
disciplina del trasferimento temporaneo dei residenti, il piano di recupero
assume i connotati di uno strumento più vicino al piano-progetto esecutivo che
al piano particolareggiato in senso tradizionale[29]. E più elevato è il
livello di dettaglio del piano, più difficile è approntarlo, più arduo è
anticipare le decisioni al momento della pianificazione (ancorchè
particolareggiata). Sicchè lo sforzo richiesto al pianificatore è notevole.
I piani di recupero, poi, non
possono accordare aumenti di cubatura rispetto a quella già realizzata[30], se non (a tutto
concedere) per sfruttare al massimo la volumetria già prevista per quella zona e
non utilizzata in precedenza e, comunque, solo nel caso di ristrutturazione
urbanistica che la doti delle necessarie aree per standards. Il che limita la
convenienza economica dell’intervento per i privati, con l’effetto di
disincentivare il recupero.
Infine, i presupposti per la
zonizzazione di recupero devono essere accertati dall’amministrazione in via
generale e preventiva in sede di pianificazione generale: l’accertamento del
“degrado”, la delimitazione delle relative “zone” e, al loro interno, delle
aree o degli immobili soggetti o meno al piano di recupero spetta in via
esclusiva all’amministrazione e in una sede probabilmente poco consona a questo
scopo (almeno nel quadro della pianificazione generale da specificare con piani
particolareggiati)[31]. Il pianificatore deve,
cioè, anticipare le scelte finalizzate al recupero in un piano a contenuto
piuttosto astratto.
Questi tre elementi rendono
scarsamente duttile il piano di recupero, vanificandone la flessibilità del
contenuto e l’intensità dell’efficacia.
D’altro canto, il regime della
zona di recupero mette in evidenza che il legislatore non aspira ad una
pianificazione del recupero dell’esistente degradato paragonabile alla
pianificazione dei nuovi insediamenti. Gli interventi di recupero (tranne la
ristrutturazione urbanistica) in questa zona sono svincolati dalla
pianificazione attuativa, salvo che vi sia l’ulteriore eventuale individuazione
di aree soggette all’obbligo del piano di recupero. In sostanza questa
disciplina sottintende, come criterio generale, l’irrilevanza urbanistica del
recupero nelle zone degradate appositamente individuate[32].
Tale criterio generale viene
mutuato da tutta la disciplina nazionale e regionale sul recupero successiva al
1978[33]: il legislatore ribadisce
che gli interventi di recupero “minori” possono essere autorizzati sulla base
del solo strumento urbanistico generale, senza previa pianificazione attuativa[34]. Quest’evoluzione culmina
con il d.l. n. 9/1982, convertito in l. n. 94/1982 (c.d. Legge Nicolazzi), e
con la l. n. 47/1985 che affrancano il recupero “minore” (cioè ad eccezione
della ristrutturazione urbanistica) dalla previa zonizzazione e dall’inclusione
nei piani pluriennali di attuazione. E trova ulteriore seguito nella
legislazione regionale successiva[35].
In questo quadro, il recupero è
principalmente un intervento di valorizzazione del patrimonio edilizio
esistente, ma senza alcuna pretesa di riordino urbanistico: l’ipotesi più
frequente è l’intervento di dimensioni e impatto ridotti, mentre solo eccezionalmente
si fa ricorso al piano di recupero[36]. Probabilmente in
contrasto con le aspettative del legislatore, allora, questa disciplina ha
avuto l’esito di identificare il recupero con interventi tendenzialmente
frammentari, estranei a logiche urbanistiche di ampio respiro.
2.
Degrado “fisico” e degrado “immateriale”. Le sfide della rigenerazione urbana.
A partire dagli anni ’90 del
Novecento il legislatore supera la prospettiva spesso asfittica del recupero.
Tralasciando i programmi integrati di intervento (art. 16 l. n. 179/1992)[37], si segnalano in questo
senso i programmi di riqualificazione urbana (d.m. 21 dicembre 1994 del
Ministero dei Lavori Pubblici, integrato dal d.m. 29 novembre 1995), i
programmi di recupero urbano (art. 11 d.l. n. 398/1993, convertito in l. n.
493/1993)[38],
i contratti di quartiere (d.m. 21 dicembre 1994 del Ministero dei Lavori
Pubblici)[39];
i programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile (d.m. dell’8
ottobre 1998 del Ministero dei Lavori Pubblici)[40].
Questi piani sono molto simili
fra loro. Sono tutti piani funzionali a promuovere la qualità della vita degli
abitati delle zone degradate e ad innescare processi di riqualificazione
fisica. Ciò può avvenire, anche in deroga allo strumento urbanistico generale,
attraverso la realizzazione, il completamento o l’adeguamento delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, la costruzione di nuovi fabbricati
residenziali (anche di edilizia residenziale pubblica) e non, opere di
sistemazione ambientale e arredo urbano, risanamento di parti comuni dei
fabbricati residenziali, manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro e
risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia e ristrutturazione
urbanistica. Tali interventi possono essere pubblici o privati (in regime
convenzionato) e sono incentivati anche da finanziamenti pubblici[41].
Questi strumenti pianificatori
lasciano intravedere una prima evoluzione dell’urbanistica delle aree
degradate. Per un verso, ci si affida a strumenti molto più duttili dei piani
di recupero, derogatori rispetto alla costruzione discendente e autoritativa
della pianificazione urbanistica. Per altro verso, questi strumenti guardano
anche al profilo dei servizi urbanistici (opere di urbanizzazione, arredo
urbano, verde pubblico) e assumono come fine la qualità della vita degli
abitanti delle zone degradate. In altre parole, nella disciplina urbanistica
italiana si fa strada l’idea che il recupero delle aree degradate debba puntare
non solo alla tutela del suolo, ma a migliorare la “qualità della città ” per
chi vi abita[42].
La qualità della città , però,
si valuta non solo in base all’estetica dell’edificato e ai servizi (opere di
urbanizzazione e servizi pubblici). Essa dipende anche dal rispetto
dell’ambiente, dallo sviluppo economico e dall’integrazione sociale[43]. Il degrado, perciò, non
è solo una situazione fisica (edilizia e di servizi urbani), ma anche “immateriale”
(ambientale e socio-economica).
Questi fattori sono
strettamente connessi fra di loro. Tuttavia non possono essere ordinati in una
progressione causale univoca: non si può individuare la fonte della qualità
della città , agire solo su di essa e ottenere a cascata gli effetti desiderati
negli altri ambiti. Questi fattori, invece, si influenzano e si amplificano
reciprocamente. Tale conclusione si coglie proponendo qualche esempio.
Chiunque può verificare che il
degrado urbano va di pari passo con l’emarginazione. àˆ una conseguenza della
diminuzione del valore e dell’appeal degli
immobili causata dal degrado: l’emarginato si accontenta di un’abitazione quale
che sia, pur di soddisfare l’esigenza abitativa; chi può permetterselo, invece,
sceglie l’immobile anche sulla base di criteri economici e di contesto. Il
degrado, poi, è aggravato dalla concentrazione delle situazioni di
emarginazione[44].
La manutenzione degli immobili e l’adeguamento dei servizi, infatti, costano.
Sicchè, a meno che non intervengano risorse pubbliche ad evitarlo (ipotesi
sempre più remota a causa della scarsità delle risorse pubbliche o, comunque,
della “scarsa propensione” all’indebitamento del settore pubblico), i “ghetti”
sono destinati a trasformarsi in zone degradate della città o ad aggravare il
loro stato di degrado. Tuttavia, sotto questo profilo, il degrado non si
sarebbe verificato (o sarebbe stato arginato) dalla presenza dei ceti più
agiati. Sicchè, non è dato cogliere quale sia il fattore scatenante di questa
dinamica (parziale) del degrado.
L’abbandono delle aree
degradate da parte dei più abbienti, poi, comporta la chiusura o il
trasferimento di almeno una parte delle attività commerciali, artigianali e di
servizio. Il che aggrava ulteriormente la situazione di degrado e per il
profilo economico e per il profilo sociale: riduce il tasso di occupazione
della zona ed esclude i suoi abitanti dalla fruizione dei servizi; o quantomeno
rende più arduo il lavoro e la fruizione dei servizi a causa degli spostamenti
cui costringe gli abitanti della zona. Ma anche zone con una massiccia presenza
di attività commerciali anche di grandi dimensioni sono considerate degradate:
si pensi al fenomeno dei grandi centri commerciali nelle periferie delle aree
metropolitane.
Se i fattori della qualità
urbana sono così eterogenei e “fluidi”, il problema del degrado non può essere
affrontato solo sotto il profilo edilizio e/o urbanistico: il miglioramento
delle zone degradate cui aspirare non è solo quello estetico o dei servizi. C’è
da migliorare il tessuto sociale ed economico di questi settori urbani (anche
per evitare che il degrado si ripeta).
La complessità degli interessi[45] che si compendiano nel
concetto di “qualità della città ” richiede, perciò, un approccio al problema
del degrado capace di integrare forme di intervento eterogenee: bisogna
sostituire un approccio olistico ad un approccio analitico (o settoriale)[46].
Tale approccio, intravisto
nella l n. 166/2002 per i programmi di riabilitazione urbana, trova al momento la
sua massima espressione nella legislazione regionale sulla rigenerazione urbana[47]. I piani/programmi di
rigenerazione urbana (variamente denominati), infatti, sono finalizzati “al
miglioramento delle condizioni urbanistiche, abitative, socio-economiche,
ambientali e culturali degli insediamenti umani”[48].
Essi possono includere: la riqualificazione dell’edificato; la riorganizzazione
dell’assetto urbanistico; il contrasto dell’esclusione sociale degli abitanti
con interventi nel campo “abitativo, socio-sanitario, dell’educazione, della
formazione, del lavoro e dello sviluppo”[49];
il risanamento dell’ambiente.
Si tratta di piani esecutivi,
ad iniziativa pubblica o privata, che interessano porzioni di uno o più Comuni
totalmente o parzialmente edificate e che possono variare gli strumenti
urbanistici generali[50], purchè la variante non
consista nella trasformazione in zone edificabili di aree a destinazione
agricola[51].
La competenza all’adozione e all’approvazione del piano varia a seconda
dell’ambito territoriale interessato e della presenza di deroghe allo strumento
urbanistico generale. Tuttavia, la legislazione regionale tende a concentrare
(almeno per questo genere di piani) tutti i momenti decisionali in una
conferenza di servizi[52].
L’ampiezza dell’ambito di
intervento (anche sovra-comunale) e la latitudine degli interventi (non solo di
carattere edilizio ed urbanistico) rende questi strumenti quasi a contenuto
libero, cioè in gran parte atipici[53]. Al contempo, però, sono
piani (come quelli di recupero) già pronti per l’esecuzione materiale: sono la
sede di scelte strategiche complesse e, al contempo, degli strumenti per la
loro immediata attuazione, particolarmente delle risorse necessarie[54]. Mentre il contenuto
quasi-libero li assimila agli strumenti pianificatori generali e conferisce
loro l’allure di piani strategici[55], la prontezza
all’attuazione li avvicina ai piani esecutivi (che corrisponde alla
qualificazione di questi piani da parte dalle leggi regionali).
Almeno nei fatti, però, i piani
di rigenerazione urbana sono stati utilizzati per il recupero o la riqualificazione
di aree relativamente ristrette dell’ambito urbano (aree industriali dismesse,
quartieri di edilizia residenziale pubblica e simili): si tratta di piani
settoriali almeno sotto il profilo territoriale. Tuttavia alla rigenerazione
urbana, intesa come sforzo verso la qualità della città , non si addice la
natura (giuridica e/o di fatto) settoriale[56].
Tale impostazione ristretta
della rigenerazione comporta, ad esempio, il rischio della gentrification[57]: la rivitalizzazione
dell’area richiama l’insediamento dei ceti più abbienti al posto di quelli che
la occupavano in precedenza. Ciò avviene sulla base di logiche di mercato: la
riqualificazione dell’area fa innalzare l’appetibilità degli immobili e, di
conseguenza, la loro domanda e il loro prezzo; i ceti più disagiati vendono per
lucrare l’aumento di valore ed acquistano i ceti più abbienti (sempre che la
rigenerazione sia riuscita ad evitare manovre speculative a danno dei
precedenti abitanti). Ciò, però, non elimina il degrado socio-economico:
allevia (forse) in parte il disagio finanziario di quella parte della
popolazione, ma per il resto sposta il problema in un’altra zona della città ,
ancora più periferica, aggravando l’esclusione dalla vita cittadina di quei
ceti e la loro emarginazione.
Sicchè la disciplina “anfibia”[58] di questi piani, che ne
permette un’applicazione territorialmente ristretta, può provocare distorsioni
ancora peggiori di quelle che tenta di riparare.
La rigenerazione urbana,
inoltre, esige orizzonti temporali di lungo periodo e flessibilità della
disciplina urbanistica, rispettivamente impediti dal legame con la
programmazione finanziaria (i fondi vengono individuati una tantum e con orizzonti temporali ancorati alla realizzazione
del singolo gruppo di interventi) e dall’impostazione ancora gerarchica della
pianificazione urbanistica (i piani di rigenerazione vengono, comunque,
espressamente subordinati agli strumenti urbanistici generali)[59]. Sarebbe, cioè,
necessario sposare appieno l’ottica della pianificazione strategica: abbandonare
l’idea di pianificazione settoriale, per zone omogenee e tendenzialmente rigida,
per un’urbanistica fondata su uno o pochi strumenti flessibili, atipici e
tendenzialmente fungibili, con alla base uno studio urbanistico della città di ampio
respiro.
Questa è la tendenza
dell’urbanistica contemporanea[60]. Tuttavia, si può
avanzare qualche dubbio in ordine al fatto che la pianificazione o la
programmazione strategica o “poli-funzionale” locale sia in grado di risolvere i problemi del degrado, particolarmente
di quello “immateriale” (economico e sociale).
La qualità della città sotto il
profilo socio-economico dipende da dinamiche che sfuggono al livello di governo
cui questo genere di pianificazione-programmazione è attualmente affidata
(comunale o sovra-comunale). Tuttavia, sarebbe inconcepibile affidare questa
funzione ad un livello territoriale superiore: ancorchè adeguato per i profili
socio-economici, esso non avrebbe il contatto con la realtà urbana necessario
per la pianificazione della rigenerazione “fisica” (edilizia, urbanistica,
ambientale).
D’altro canto, la
pianificazione e la programmazione hanno manifestato il loro fallimento sul
versante socio-economico. Le strade per migliorare questi aspetti sono quelle
di politica economica: creare le condizioni ottimali per un’economia di mercato,
ancorchè non “selvaggia”, accompagnata dai dovuti interventi pubblici di
stimolo (nei limiti in cui questi non si traducano in distorsioni della
concorrenza vietate dal diritto europeo). E anche su questo versante, l’apporto
della governance locale e regionale
ha ricadute molto limitate.
In sostanza, il dubbio (e al
contempo la sfida) dell’urbanistica delle aree degradate è se i piani/programmi
di rigenerazione (o comunque denominati) siano strumenti idonei alla soluzione
del degrado immateriale. O se, come sembra più plausibile, non sia necessario
integrarli in politiche economiche di ampio raggio, pur senza rievocare gli
“spettri” della pianificazione a cascata[61].
[1] A. Crosetti, Piano di recupero, in Nss.
Dig. it., Torino, Appendice, V, 1984, p. 941.
[2] E.M. Marenghi, Il recupero del patrimonio edilizio e urbanistico esistente,
Milano, 1982, p. 21.
[3]Su questa evoluzione, dal punto di vista culturale: C. Carozzi- R. Rozzi, Centri
storici:questione aperta, Bari, 1971. Fra gli urbanisti: G. Della Pergola, La politica “riformista” legata al risanamento urbano, in Edilizia popolare, n. 110, gennaio
febbraio 1973, pp. 29 e ss.; M. Romano, Centri storici e riequilibrio territoriale,ivi, n. 111, marzo-aprile 1973, pp.
47 e ss.; L. Cervellati – R. Scannavini, Interventi nei centri storici. Bologna.
Politiche e metodologie del restauro, Bologna, 1973. Sul piano giuridico,
invece, cfr., fra gli altri, F. Salvia, Dal “risanamento” al “restauro conservativo”
dei centri storici: riflessi sulla strumentazione operativa, in Foro amm., 1973, II, p. 23; A. Crosetti, Interventi regionali nei centri storici: problema aperto, in Riv. giur. ed., 1975, pp. 186 e ss.; Id., Piano
di recupero, cit., pp. 940 e s.
[4]I centri storici, cioè, sono “beni culturali urbanistici”, “prodotti culturali
della civiltà preindustriale e contadina” la cui tutela prescinde dalla
“presenza di ˜cose’ di eccelso valore artistico, storico, ambientale” (F. Salvia, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2012, II ed., pp. 107 e s.;
cfr. anche Id., Le testimonianze culturali e urbanistiche
del passato: le ragioni di una maggior tutela. Vecchi e nuovi dilemmi su centri
storici e periferie urbane, in Dir.
soc., 2006, pp. 327 e ss.).
[5]Bisognerebbe tenere distinti il recupero e la conservazione. La conservazione è
“la tecnica intesa a perpetuare l’esistenza di un manufatto [¦] per
˜mantenerlo’ nella sua disposizione originaria”. Il recupero, invece, è
“l’intervento (o l’insieme degli interventi) che mira a ˜restituire’ all’uso
[¦] un edificio degradato o fatiscente”: G.
Colombo – F. Pagano – M. Rossetti, Manuale
di urbanistica. Dai piani territoriali ai piani attuativi, Milano, 1985, IX
ed., p. 369.
[6]Cfr. F. Salvia, Manuale, cit., p. 111. Sulla tutela dei
centri storici e sulla loro disciplina urbanistica, fra gli altri: G. D’Alessio, I centri storici: aspetti giuridici, Milano, 1983; F.G. Scoca – M. D’Orsogna, Centri storici, problema irrisolto, in Scritti Predieri, Milano, 1996, vol. II,
pp. 1351 e ss.; G. De Giorgi Cezzi, Il diritto all’identità minore- beni
culturali e tutela degli status, in Scritti
in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, vol. III, pp. 219 e ss..
[7]Tale legge si inseriva nel piano decennale di edilizia residenziale: l’art. 32
della l. n. 457/1978 specifica che gli interventi di recupero devono essere
inseriti nei piani pluriennali di attuazione. Il che fa del recupero uno
strumento di adeguamento alle esigenze abitative da affiancare alla nuova
costruzione. Sulla funzione della l. n. 457/1978 nell’ottica della politica
residenziale, cfr. V. Domenichelli, Stato e Regioni nel piano decennale per
l’edilizia residenziale, in Le
Regioni, 1978, pp. 1147 e ss.; E.
Sticchi Damiani, Recupero delle
abitazioni e organizzazione giuridica del territorio, Milano, 1980; E.M. Marenghi, Il recupero del
patrimonio edilizio, cit..
P. Mazzoni, Diritto
urbanistico, Milano, 1990, pp. 329 e ss. individua le ragioni di questo
cambio di rotta nell’infrangersi del mito della crescita illimitata durante gli
anni Settanta del Novecento.
[8] Buccisano, Presentazione, in Aa. Vv.,Recupero e risanamento urbano (Atti del
Convegno di Messina del 23.6.1984),
Milano, 1986, p. 7; C. Pinamonti, I piani e i programmi di recupero urbano,
in D. de Pretis (a cura di), La pianificazione urbanistica di attuazione.
Dal piano particolareggiato ai piani operativi, Trento, 2002, pp. 196 e
ss..
[9] F. Migliarese, Piano di recupero del patrimonio edilizio,
in Dig. disc. pubbl., Torino, XI,
1996, p. 164, infatti, rileva che la legge n. 457/1978 ha “reso giuridicamente
rilevante, per la prima volta nella legislazione urbanistica italiana, un
distinto pubblico interesse al recupero in funzione di riuso dell’edificato
esistente”. In giurisprudenza, sul punto, Cass., S.U. pen., 16 luglio 1982, n.
7102, in Giust. civ., 1983, p. 1293,
ove si legge che la legge citata ha stabilito “il principio dell’interesse
pubblico nel recupero edilizio”.
[10]Su cui si veda G.C. De martin, Strumenti giuridici e finanziari degli
interventi di conservazione e recupero del patrimonio edilizio, in Riv. giur. ed., 1979, II, pp. 39 e ss.
[11] P. Mazzoni, Diritto urbanistico, cit., p. 336.
Su entrambi questi modi di
incentivare il “recupero”, cfr. di recente S.
Amorosino, Il finanziamento e le
dotazioni urbanizzative nei programmi di rinnovamento urbano, in Riv. giur. ed., 2013, II, pp. 315 e ss.
[12]In tal modo, il piano di recupero avrebbe anche il fine di agevolare
opportunità economiche, bloccate dal vecchio sistema urbanistico: per tutti, N.
Assini – P. Mantini, Manuale di diritto urbanistico, Milano,
1997, II ed., p. 377.
[13]L’art. 27 della l. n. 457/1978, infatti, subordina gli interventi di edilizia
residenziale in esecuzione dei piani di recupero alla sottoscrizione di una
convenzione o di un impegno unilaterale del costruttore a calmierare i prezzi
di vendita e di locazione degli immobili.
[14]Espressamente Cons. Stato, sez. V, 20 novembre 1989 n. 749, in Foro amm., 1989, p. 3071; Cons. Stato,
sez. V, 13 febbraio 1990 n. 154, in Foro
amm., 1990, p. 389).
[15] N. Assini – P. Mantini, Manuale, cit., p. 376, individuano
cinque profili di specialità dei piani di recupero: “a) l’oggetto, in quanto questi interventi interessano il ˜patrimonio
edilizio ed urbanistico esistente’; b) i presupposti,
in quanto trovano giustificazione nel ˜degrado’ dei singoli immobili o delle
aree in cui questi ricadono; c) la funzione,
in quanto perseguono il ˜recupero’ di tali immobili o aree; d) i contenuti, in quanto vi rientrano (solo)
gli interventi conservativi, di risanamento, di ricostruzione e per la migliore
utilizzazione degli immobili stessi; e) il metodo,
in quanto la presenza dei primi tre elementi (a-c) dev’essere valutata ed
accertata dal Comune in via preventiva e generale (in sede di piano regolatore
o con un apposito provvedimento analogamente riferito all’intero territorio
comunale) mediante la ˜individuazione’ delle ˜zone’ in cui tali condizioni si
verificano” (enfasi testuale).
In tal senso anche G. Colombo – F. Pagano – M. Rossetti, Manuale di urbanistica, cit., p. 373; P. Mazzoni, Diritto urbanistico, cit., p. 333; G.C.
Mengoli, Manuale di diritto
urbanistico, Milano, 1997, IV ed., p. 334, nota 2; G. Pagliari, Corso di
diritto urbanistico, Milano, 2015, V ed., p. 262.
[16]Uno dei problemi di applicazione di questa normativa, infatti, è stato quello
di raccordare il recupero con gli strumenti urbanistici generali entrati in
vigore prima del 1978, “metodologicamente inadatti a entrare in ˜comunicazione’
con la conformazione a scala micro-urbanistica del nuovo piano” (F. Migliarese, Piano, cit., p. 165, ma già S.
Amorosino, Il piano di recupero
nel “sistema” dei piani urbanistici, in Riv.
giur. ed., 1990, II, p. 247.
[17]All’epoca soggetta al controllo del CO.RE.CO.
[18]Si è discusso sul se il Comune sia obbligato a prevedere le zone di recupero.
Lo escludono S. Perongini, I piani di recupero: aspetti procedurali e
sostanziali, in Riv. giur. ed.,
1982, II, p. 258 e V. Domenichelli, A ciascuno il suo (sull’ “equiparazione” dei piani di recupero ai piani
particolareggiati), in Dir. Regione,
1983, p. 250.
Lo ammette A. Gambaro in M. Pampanin – A. Gambaro – E. Granelli – G. Iudica – A. Liserre – F.C.
Rampulla – A. Travi, Commenti al
titolo IV della Legge, in Commentario
alla legge 5 agosto 1978 n. 457, in Nuove
leggi civili, 1979, p. 24. Sembra ravvisare questo obbligo anche F. Migliarese, Piano, cit., p. 165. N. Assini- P. Mantini, Manuale di diritto urbanistico, cit., p.
386 e s., invece, ritengono che “se non un vero e proprio obbligo, [c’è]
quantomeno una regolarità , nel senso che il non uso di questo potere è
destinato a rappresentare l’eccezione, mentre l’ipotesi normale sarà quella del
suo impiego”.
[19]Per tutti, F. Migliarese, Piano, cit., p. 167. Tale indicazione
limita i contenuti del piano di recupero: G. Tulumello,Profili teorici e problematiche
applicative delle attività di recupero edilizio ed urbanistico, in Riv. giur. ed., 1991, II, pp. 45 e s.
rileva che “c’è un nesso ben preciso tra il potere discrezionale rimesso
all’amministrazione comunale allo scopo di localizzare l’esistente degradato ed
il potere discrezionale di cui la medesima dispone nella disciplina dei
contenuti sostanziali del piano di recupero, nel senso che i margini del primo
non possono che essere quanto meno pari – se non più ampi, ma mai più ristretti
– rispetto a quelli del secondo”.
[20]Sulle zonizzazioni in generale (intese come delimitazione delle zone ex d.m. n.
1444/1968), per tutti E. Picozza, Il piano regolatore generale urbanistico.
Linee di tendenza della legislazione regionale, Padova, 1987, pp. 56 e ss..
[21] N. Assini – P. Mantini, Manuale, cit., pp. 381 e s. parlano,
infatti, di due ordini di individuazioni: la zonizzazione con la quale si
delimita la zona degradata da recuperare (“individuazione 1”); l’individuazione
degli immobili o delle aree il cui recupero è soggetto all’approvazione del
piano di recupero (“individuazione 2”).
[22] Su
questo profilo, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 1987 n. 675, in Foro amm., 1987, I, p. 2908.
[23]Titolari dell’iniziativa del piano di recupero sono i proprietari di immobili
nelle zone di recupero che rappresentino almeno i tre quarti del valore
catastale degli immobili interessati dal piano o, per gli interventi su singoli
edifici in condominio, la maggioranza dei condomini che rappresenti almeno la
metà del valore catastale dell’edificio (in deroga alle norme sul condominio).
[24]Una volta decaduto, le aree che vi erano incluse vengono sottoposte allo stesso
regime delle aree della zona “di recupero” che non erano soggette al piano di
recupero: possono, cioè, essere autorizzati tutti gli interventi enumerati
dall’art. 31, c.1, l. n. 457/1978, ad eccezione della ristrutturazione
urbanistica, senza l’intermediazione di alcun piano particolareggiato.
[25]Le definizioni di questi interventi, contenute nell’art. 31, c.1, l. n.
457/1978, saranno poi trasfuse con modifiche marginali nell’art. 3 D.P.R. n.
380/2001. Per un’analisi di questi interventi, cfr. G. Pagliari, Corso di
diritto urbanistico, cit., pp. 266 e ss..
Una questione disputata è
se la demolizione e successiva ricostruzione rientri nel concetto di
ristrutturazione edilizia e, quindi, se questo tipo di intervento possa essere
assentito anche solo in base alla mera zonizzazione di recupero (senza
necessità del piano): si veda di recente P.
Tanda, Interventi di
ristrutturazione edilizia e di ristrutturazione urbanistica: in particolare
l’ipotesi di demolizione e successiva ricostruzione, in Riv. giur. ed., 2012, II, pp. 103 e ss..
[26]Che, sotto questo aspetto, ha l’efficacia dell’ordine: S. Perongini, Il piano
di recupero, cit., p. 274; G.
Leondini, Sulla natura giuridica
dei piani di recupero (nota a Cons. Stato, sez. IV, 28 maggio 1988 n. 468),
in Riv. giur. urb., 1985, pp. 299 e
s.
[27] Cfr A. Crosetti, Piano di recupero, cit., p. 942 che parla di un piano a contenuto
“semi-libero”.
[28]Scrive S. Perongini, Il piano di recupero, cit., p. 275: “la
situazione giuridica che si determina è similare a quella che si rinviene nell’onere
reale: un’ambulatorietà passiva del soggetto la cui legittimazione dipende
dall’esistenza di un rapporto di proprietà col bene”. In termini, P. Mazzoni, Diritto urbanistico, cit., p. 336.
[29]Ancora S. Perongini, op. ult. cit., p. 276. N. Assini – P. Mantini, Manuale, cit., p. 393, parlano di ruolo
“operativo”, piuttosto che “regolativo” del piano di recupero.
[30] TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 16 maggio 1991 n. 763, in Riv. giur. ed., 1991, I, p. 946.
[31] N. Assini – P. Mantini, Manuale, cit., pp. 378 e s.
[32] N. Assini – P. Mantini, Manuale, cit., pp. 391 e ss..
[33]Per un’analitica esposizione di questa legislazione, cfr. ancora N. Assini – P. Mantini, Manuale, cit., pp. 395 e ss..
[34]Ad esempio, l’ art. 6, punto 2 della l.r. Piemonte n. 50/1980 e l’art. 4 l.r.
Toscana n. 59/1980 che estendono l’assentibilità diretta degli interventi di
recupero ad eccezione della ristrutturazione urbanistica ai centri storici ed
alle zone di tipo A, senza bisogno di individuare le zone di recupero. Ancora
oltre si spinge la l.r. Veneto n. 80/1980 che all’art. 9 stabilisce che quegli
interventi sono “in ogni caso da ritenere ammissibili, in diretta attuazione
del piano regolatore generale”, cioè senza alcuna previa individuazione.
[35]Cfr. ad esempio art. 76 l. r. Veneto n. 61/1985, artt. 5 e 6 della l.r. Friuli
– Venezia Giulia n. 18/1986, art. 24 l. r. Sicilia n. 13/1986.
[36] N. Assini – P. Mantini, Manuale, cit., p. 394.
[37]Tale norma fu dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la
sentenza 19 ottobre 1992 n. 393 sotto il profilo procedimentale della loro
approvazione (per la lesione delle competenze regionali in materia) e sotto il
profilo “sostanziale” per irragionevolezza e violazione del principio di buon
andamento della p.a..
[38]Sui programmi di riqualificazione urbana e sui programmi di recupero urbano, si
vedano: G.C. Mengoli, Manuale, cit., pp. 357 e ss.; A. Chierichetti, Riqualificazione urbana e pianificazione urbanistica, in Riv. giur. urb., 1999, III, pp. 91 e
ss.; A. Fiale, La riqualificazione urbana tra
pianificazione del territorio e governo dell’ambiente, in Studium Iuris, 2001, pp. 981 e ss.; R. Gallia, Recupero urbano, riqualificazione del territorio e sviluppo economico:
una convergenza parallela negli strumenti negoziali, in Riv. giur. Mezzogiorno, 1999, pp. 1139 e
ss.; F. Montemurro, Sviluppo e politiche urbanistiche: gli
strumenti per riqualificare la città , in Comuni d’Italia, 2004, n.3, pp. 19 e ss.; C. Vitale, Società di
trasformazione urbana e riqualificazione urbana nell’urbanistica per progetti,
in Dir. amm., 2004, pp. 591 e ss.; M. Calabrò, La pianificazione comunale di attuazione, in A. Crosetti – A. Police – M. R. Spasiano (a
cura di), Diritto urbanistico e dei
lavori pubblici, Torino, 2007, pp. 59 e ss.
[39]Su cui M. Breganze, Contratti di quartiere: strumenti utili per
il recupero urbano?, in Riv. amm.,
1997, I, pp. 1139 e ss.; V. Pavone, Recupero e contratti di quartiere, tra suggestioni terminologiche e
quadro funzionale, in P. Stella
Richter – R. Ferrara – C.E. Gallo – C. Videtta (a cura di), Recupero
urbanistico e ambientale delle aree industriali dismesse, Torino, 10-11 novembre 2006, Napoli,
2008, pp. 321 e ss.
[40] R. Damonte, Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del
territorio (PRUSST) di cui al d.m. 8 ottobre 1998 n. 1169, in Riv. giur. ed., 2001, II, pp. 33 e ss.
[41] Per
un’analisi più dettagliata, N. Assini –
P. Mantini, Manuale, cit., pp.
406 e ss..
[42] R. Dipace, La rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione, in Riv. giur. ed., 2014, II, p. 237.
[43]La qualità della città è declinata in questi termini in numerose dichiarazioni
internazionali. Le Nazioni Unite nel 1992 lo hanno incluso fra gli obiettivi
per il ventunesimo secolo (Agenda 21).
Le amministrazioni locali delle città europee riunitesi ad Aalborg nel 1994
(insieme ad esperti, rappresentati di istituzioni internazionali, europee ed
internazionali) ne hanno fatto oggetto specifico di impegno con la “Carta delle
città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile” (in attuazione
dell’Agenda 21 dell’ONU), ulteriormente precisato nella revisione di quella
carta nel 2004 (gli “Aalborg Commitments”) come l’impegno a “1. rivitalizzare e
riqualificare aree abbandonate o svantaggiate; 2. prevenire un’espansione
urbana incontrollata, ottenendo densità urbane appropriate e dando precedenza
alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente; [¦] 4. garantire una
adeguata tutela, restauro e uso/riuso del nostro patrimonio culturale urbano;
5. applicare i principi per una progettazione e una costruzione sostenibili,
promuovendo progetti architettonici e tecnologie edilizie di alta qualità “, al
fine di creare “città ospitali, prospere, creative e sostenibili, in grado di
offrire una buona qualità della vita a tutti i cittadini, consentendo loro di
partecipare a tutti gli aspetti della vita urbana”. Gli Stati membri
dell’Unione Europea hanno definito le comunità sostenibili come le “realtà in cui
le persone intendono vivere e lavorare, adesso e in futuro, che sono in grado
di soddisfare le diverse necessità degli abitanti attuali e futuri, prestano
attenzione all’ambiente e contribuiscono ad un alto livello di qualità della
vita. Sono sicure e accoglienti, ottimamente pianificate, costruite e gestite,
e offrono pari opportunità e buoni servizi per tutti” (Accordo di Bristol del
2005). A questa definizione di comunità sostenibile fa riferimento anche il
Consiglio d’Europa nella risoluzione n. 269 del 29 maggio 2008 che ha adottato
la nuova “Carta urbana europea” (sostituendo quella del 1992), al fine di
creare una rete di principi e concetti comuni ai paesi membri (una “cultura”
europea della città ).
Cfr. R. Dipace, La rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione, in Riv. giur. ed., 2014, II, pp. 237 e ss.
[44]Non di rado tale concentrazione è l’esito della di politiche urbanistiche “per settori”.
Ad esempio, relegare in una zona della città l’edilizia economica e popolare
comporta che le situazioni di emarginazione si concentrino.
[45] Cfr. G. Pagliari, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. giur. ed., 2013, II, pp. 135 e ss.
[46]Sul punto cfr. la “Carta di Lipsia sulle città europee sostenibili” del 2007 e
la Dichiarazione di Toledo del 2010.
àˆ la c.d.
“polifunzionalità ” dei piani urbanistici, su cui si veda di recente F. Cangelli, Piani strategici e piani urbanistici. Metodi di governo del territorio
a confronto, Torino, 2012, pp. 54 e ss. (in generale) e pp. 223 e ss. (per
i piani di recupero in senso lato).
La pianificazione
settoriale, poi, è stata accusata da una parte della dottrina (assieme
all’urbanistica convenzionata) di far perdere il senso della pianificazione
urbanistica: cfr. per tutti, P. Stella
Richter, Relazione generale,
in Id. (a cura di), Sicurezza del territorio – Pianificazione e depianificazione. Atti del
15° e del 16° Convegno nazionale dell’Associazione italiana di diritto
urbanistico, Ferrara 6-7 ottobre 2011
e Macerata, 28-29 settembre 2012, Milano, 2014, p. 146, che parla di
de-pianificazione; S. Amorosino, Depianificazione urbanistica e
frammentazione degli interessi e dei poteri, in Riv. giur. ed., 2012, II, pp. 139 e ss.. Contra, invece, P. Urbani, Urbanistica consensuale, Torino, 2000.
[47] L.r.
Puglia n. 21/2008, l. r. Piemonte n. 20/2009, l.r. Toscana n. 40/2011, l.r.
Umbria n. 12/2013.
[48] Art. 1, l.r. Puglia n. 21/2008.
[49] Art. 2, c.1, lett. c), l.r. Puglia
n. 21/2008.
[50] Sulle
varianti, cfr. per tutti E. Picozza, Il piano regolatore generale urbanistico,
Padova, 1983, pp. 187 e ss.
[51]L’art. 2, c.3, l. r. Puglia n. 21/2008 ammette un’eccezione a questo divieto:
la trasformazione da area a destinazione agricola ad area edificabile non può
avvenire “fatta eccezione per quelle contigue necessarie alla realizzazione di
verde e servizi pubblici nella misura massima del 5 per cento della superficie
complessiva dell’area d’intervento. Tale variante deve comunque essere
compensata prevedendo una superficie doppia rispetto a quella interessata dal
mutamento della destinazione agricola, destinata a ripermeabilizzare e
attrezzare a verde aree edificate esistenti”.
[52]Sulla sostituzione della conferenza di servizi allo schema del procedimento
complesso ˜adozione-approvazione’, cfr. A.
Crosetti, La semplificazione
procedimentale nel governo del territorio: conferenze e accordi di
copianificazione, in Riv. giur. urb.,
2012, pp. 343 e ss.. A proposito delle implicazioni dell’uso di questo
strumento di semplificazione in materia urbanistica: E. Scotti, La
conferenza di servizi tra urbanistica e ambiente, ibidem, pp. 295 e ss.. Sulla semplificazione nei procedimenti di
pianificazione, cfr. più in generale P.
Portaluri, Semplificazione e
procedimenti di pianificazione. Il procedimento di approvazione, ibidem, pp. 425 e ss.
[53]Molto significativo a tal proposito è l’art. 4, c.1, l. r. Puglia n. 21/2008
che, nel definire il contenuto dei piani integrati di rigenerazione urbana,
stabilisce che essi riguardino “prioritariamente” una serie di interventi.
L’elenco ivi previsto, cioè, non è tassativo, ma meramente esemplificativo.
[54] P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico. Organizzazione e
rapporti, Torino, 2004, p. 189, ne traggono (rispetto ai piani integrati di
intervento) che si tratti di programmi di finanziamenti pubblici. Per
l’estensione di questa considerazione a tutti piani del “recupero” in senso
lato, cfr. F. Cangelli, Piani strategici, cit., p. 233.
[55] F. Cangelli, Piani strategici, cit., pp. 224 e s.
Sull’eventuale ruolo nei
piani strategici nella (già ricordata) tendenza alla de pianificazione, cfr. A. Simonati, Il piano strategico in Italia: meccanismo di valorizzazione della
pianificazione urbanistico-territoriale o impulso alla depianificazione?,
in Riv. giur. ed., 2013, II, pp. 99 e
ss..
[56] R. Dipace, La rigenerazione, cit., pp. 251 e ss.
[57]La gentrification è il fenomeno di spostamento della classe media (˜gentry’ significava piccola borghesia,
poi è divenuto il termine inglese per indicare la media borghesia) in quartieri
un tempo operai o popolari, a seguito del loro risanamento urbanistico ed
edilizio. Su questo fenomeno cfr., fra gli altri, M. Lang, Gentrification
Amid Urban Decline: Strategies for America’s Older Cities, Cambridge
(Mass.), 1982.
[58] R. Dipace, La rigenerazione, cit., p. 251, che mutua la terminologia di S. Amorosino, Depianificazione urbanistica e frammentazione degli interessi e dei
poteri, in P. Stella Richter (a
cura di), Sicurezza del territorio,
cit., p. 262 (il quale la utilizza per denotare la doppiezza degli strumenti di
recupero per la commistione di profili propri della pianificazione urbanistica
e di profili più strettamente amministrativistici).
[59] R. Dipace, La rigenerazione, cit., pp. 252 e ss.
[60] Cfr.
nuovamente gli “Aalborg Commitments” del 2004 e la “Dichiarazione di Toledo”
del 2010.
[61] Su cui
si veda P. Portaluri, Poteri urbanistici e principio di
pianificazione, Napoli, 2003, pp. 27 e ss.