1. Leggi, decreti, regolamenti – Forze armate – Codice dell’ordinamento militare – Perdita di grado – Natura giuridica – Principio di irretroattività della legge penale – Irrilevanza
2. Pubblico impiego – Rapporto di servizio – Forze armate – Sospensione disciplinare dal servizio – Perdita di grado – Natura – Violazione del ne bis in idem – Non sussiste
3. Pubblico impiego – Rapporto di servizio – Forze armate – Perdita di grado – Indulto – Effetti
4. Leggi, decreti, regolamenti, – Forze armate – Rapporto di servizio – Cessazione – Codice dell’ordinamento militare – Incidente di costituzionalità – Infondatezza
1. L’interdizione dai pubblici uffici, indipendentemente dalla natura di pena accessoria, è da considerarsi presupposto oggettivo per determinare la perdita di grado nel rapporto di servizio, secondo il combinato disposto di cui agli artt. 861, comma 1, lett. e), 866, 867, comma 1 e 923 commi 1 e 3 del d. lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’Ordinamento Militare) ed è applicabile ad ogni procedimento amministrativo instaurato dopo l’entrata in vigore del stesso, secondo il principio tempus regit actum, non rilevando che essa scaturisca da una vicenda a rilevanza penale verificatasi prima della riforma dell’ordinamento militare in questione: la perdita di grado, infatti, non è da considerarsi come pena accessoria, bensì è un effetto indiretto con ricadute nel rapporto di servizio con le forze armate, di carattere meramente amministrativo, dell’applicazione della sanzione interdittiva di natura penale.
2. Non sussiste violazione del principio del ne bis in idem nel procedimento amministrativo da parte dell’amministrazione militare che abbia fatto seguire ad una sospensione disciplinare – nel frattempo revocata – la perdita di grado, dovendosi escludere per quest’ultima la natura di sanzione disciplinare, in quanto effetto automatico, secondo quanto disposto dagli artt. 866 e 923 del D. Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) della esecuzione della pena prevista dalla sentenza di condanna penale.
3. La perdita del grado ex art. 866 D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) è subordinata ad una condanna definitiva non condizionalmente sospesa. La sospensione condizionale della pena, d’altro canto, non è equiparabile all’indulto – concesso nella specie -, il quale non opera sul reato, ma esclusivamente sulla pena principale non estinguendo, quindi, le pene accessorie (Nella specie la pena accessoria interdittiva è rimasta efficace ed esecutiva, come attestato dal certificato”stato di esecuzione”).
4. La cessazione del rapporto di servizio ex art. 923 D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), in seguito alla perdita del grado ex 866 dello stesso codice non contrasta con i fondamentali principi costituzionali quali gli artt. 3, 4, 35 cost. nonchè con i principi di buon andamento ed economicità della p.A.. In particolare la disciplina legislativa contenuta nel nuovo ordinamento militare rispecchia una linea legislativa severa nei confronti di reati contro la p.A. e il diritto al lavoro ben può essere modellato dal legislatore discrezionalmente al fine di tener conto di altre esigenze costituzionalmente rilevanti.
N. 01116/2014 REG.PROV.COLL.
N. 00011/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 11 del 2014, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Cozzi, con domicilio eletto presso il suo studio in Bari, Corso Cavour, 31;
contro
Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, Direzione Generale per il Personale Militare del Ministero della Difesa, in persona del Direttore Generale pro tempore, entrambi rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bari, presso la stessa domiciliati in Bari, Via Melo, 97;
per l’annullamento
previa sospensiva,
– del D.M. n. 515/I-3/2013 del 16.10.2013, notificato in data 28.10.2013;
– del D.M. n. 324/I-3/2013 del 20.6.2013 di sospensione del ricorrente per tre mesi dall’impiego, nell’art. 2 del dispositivo, laddove afferma che “sono fatte salve le decisioni che l’Amministrazione della Difesa potrà assumere non appena acquisito lo stato di esecuzione della sentenza di condanna, con particolare riguardo alla pena accessoria interdittiva inflitta”;
– ove occorra, il rilievo n. 496 – posiz. 42205 del 3.9.2013 con il quale l’Ufficio centrale del Bilancio presso il Ministero della Difesa ha restituito alla Direzione Generale per il Personale Militare del Ministero della Difesa il precitato decreto di sospensione disciplinare del ricorrente;
– di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente, anche non noto;
nonchè per l’accertamento
del diritto del ricorrente a riottenere il grado, con conseguente ricollocazione nella medesima posizione lavorativa, con condanna dell’Amministrazione resistente al pagamento degli stipendi mensili non percepiti in esecuzione del provvedimento impugnato fino alla data della decisione, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal giorno del dovuto fino al soddisfo;
nonchè, in subordine,
per la declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art. 866, comma 1 e 923, comma 1, lett. i), D. Lgs. n. 66 del 15.3.2010 per violazione degli artt. 3, 4, 35 e 97 Cost., nonchè del canone di razionalità normativa;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e della Direzione Generale per il Personale Militare;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 52 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, commi 1, 2 e 5;
Relatore nell’Udienza Pubblica del giorno 12 giugno 2014 la dott.ssa Paola Patatini e uditi per la parte ricorrente il difensore, avv. Giuseppe Cozzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
L’odierno ricorrente – all’epoca dei fatti in servizio presso il Distaccamento Aeronautico Jaco tenente in Vico del Gargano col grado di Maresciallo di I Classe – è stato condannato con sentenza definitiva alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di quella principale, per il reato di abuso di ufficio in concorso aggravato e continuato.
La medesima sentenza ha dichiarato inoltre la pena condonata ed estinta in virtù dell’applicazione dell’indulto ai sensi dell’art.1, L. n. 241/06.
L’Amministrazione intimata, previo procedimento disciplinare, disponeva quindi la sospensione dall’impiego del ricorrente per tre mesi, con Decreto n. 324 del 20.06.2013.
Tuttavia, a seguito del ricevimento della nota del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato – Ufficio Centrale del Bilancio del Ministero dell’Economia e Finanze, in cui si rilevava che l’Amministrazione avrebbe dovuto dare immediato seguito alla pena accessoria applicata in sentenza, e del Certificato “stato di esecuzione” in cui si comunicava ex art.662 c.p.p., per l’ulteriore corso di esecuzione, l’inflizione nei confronti del ricorrente della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di un anno e quattro mesi, l’Amministrazione, annullando il precedente Decreto n.324, ha disposto nei confronti del Maresciallo la perdita del grado e la cessazione dal servizio permanente, con collocazione nel ruolo dei militari di truppa dell’Aeronautica senza alcun grado (Decreto n. 515 del 16.10.2013).
Il ricorrente ha pertanto qui impugnato i sopradetti decreti, chiedendone l’annullamento, previa sospensione degli effetti, per i seguenti motivi:
1)Violazione e falsa applicazione del principio di irretroattività della legge penale;
2) Violazione dell’art. 9, comma 1, L. n. 19/90;
3) Violazione di legge: artt. 1371 e 1372 D. Lgs. n. 66/10; art.21nonies, L. n. 241/90. Eccesso di potere per travisamento dei presupposti in fatto ed in diritto. Contradditorietà . Perplessità ;
4) in subordine, Violazione di legge: artt.866 e 923 D. Lgs. n. 66/10. Eccesso di potere per travisamento dei presupposti in fatto ed in diritto. Perplessità . Ingiustizia manifesta;
5) in subordine, Eccezione di illegittimità costituzionale artt.866 e 923, D. Lgs. n. 66/10 per violazione del principio di uguaglianza (art.3 Cost.), diritto del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), principi di buon andamento ed imparzialità dell’Amministrazione (art.97 Cost.).
Si sono costituite le Amministrazioni resistenti, contestando le censure avverse in quanto infondate, opponendosi inoltre all’istanza cautelare avversa.
All’esito della Camera di Consiglio del 16.01.2014, con Ordinanza n. 41 del 17.01.2014, è stata concessa l’invocata misura cautelare.
In vista della trattazione del merito, le parti hanno depositato memorie.
All’Udienza Pubblica del 12.06.2014, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Il Collegio, melius re perpensa, rileva che il ricorso è infondato.
2. In via preliminare, può pertanto prescindersi dai profili di inammissibilità relativi all’impugnazione proposta avverso il Decreto n. 324/13, attesa la manifesta infondatezza del gravame nel merito.
3. Oggetto del contendere è infatti la perdita del grado e la conseguente cessazione dal servizio permanente con collocamento nel ruolo dei militari senza grado, disposta nei confronti del ricorrente ai sensi del combinato disposto degli artt.861, comma 1, lett. e); 866; 867, comma 1 e 923 commi 1 e 3 del Codice dell’Ordinamento Militare (D.Lgs. n. 66/10), col Decreto n. 515 del 16.10.2013.
3.1. Il Collegio rileva come la questione da dirimere verta unicamente sulla corretta natura giuridica da riconoscere alla perdita del grado.
La tesi del ricorrente poggia infatti sulla natura di pena accessoria di tale misura.
Da ciò non potrebbe che derivare la sua soggezione al principio di irretroattività della legge penale, nonchè a quello del favor rei, come dedotto dalla parte.
In realtà , come già affermato in giurisprudenza (Cons. St., VI, n. 389 del 27.01.2014), non è condivisibile la qualificazione della perdita del grado ex art. 866, C.O.M., come pena accessoria, costituendo essa invece un effetto indiretto delle pene accessorie di carattere interdittivo (nella specie, della pena dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici), attesa l’evidente incompatibilità della persistenza del rapporto di servizio con l’applicazione di una misura interdittiva.
La perdita del grado “non rappresenta, dunque, un effetto penale o una sanzione accessoria alla condanna, bensì un effetto indiretto di natura amministrativa, giustificato dalla fisiologica impossibilità di prosecuzione del rapporto in conseguenza dell’irrogazione di una sanzione di carattere interdittivo.
Pertanto, in applicazione della disciplina generale dettata dall’art. 11 delle preleggi sull’efficacia della legge nel tempo, alle procedure amministrative, che si dispieghino in un arco di tempo successivo, si applica la nuova disciplina. [¦]
“In questo quadro, l’irrogazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato l’effetto ex lege della perdita del grado e della cessazione dal servizio.
Trova, dunque, applicazione il principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l’applicazione della normativa sostanziale vigente al momento dell’esercizio del potere amministrativo” (Cons. St., n.389 cit.)
L’art.866 del D.Lgs. n. 66/10, vigente al momento dell’adozione del provvedimento de quo, prevede infatti al primo comma che “La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all’articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”.
Il successivo art. 923, poi, annovera tra le cause che determinano la cessazione del rapporto di impiego la perdita del grado.
Da ciò deriva l’infondatezza del primo motivo di ricorso, in quanto legittimamente l’Amministrazione ha applicato la disciplina prevista dagli artt. 866 e 923 del Codice, vigente al momento dell’adozione del decreto impugnato, ricorrendone tutti i presupposti ex lege.
3.2. Priva di pregio risulta essere anche la censura mossa col secondo motivo di ricorso, relativa all’asserita violazione dell’art.9, comma 1, L. n. 19/90.
Esclusa infatti la natura di pena accessoria, trattandosi, si ripete, di un effetto indiretto derivante automaticamente dall’esecuzione della pena a carattere interdittivo, irrilevante risulta essere la disciplina previgente l’entrata in vigore del citato D.Lgs. n. 66, ovvero quella in vigore al tempus commissi delicti.
3.3. Non condivisibile, inoltre, neppure la qualificazione della perdita del grado come sanzione disciplinare, operata dalla parte nel terzo motivo di ricorso per l’ipotesi in cui non si dovesse attribuire ad essa natura penale.
In tal caso, secondo la parte, l’Amministrazione, violando il principio del ne bis in idem, avrebbe irrogato illegittimamente una seconda e diversa sanzione disciplinare per lo stesso fatto, in dispregio a quanto previsto dall’art.1371, COM.
Ferma restando infatti la natura di mero provvedimento amministrativo della perdita del grado, disposta quale effetto indiretto della pena accessoria – venendo così esclusa tanto la natura penale quanto quella disciplinare della misura – si rileva che è lo stesso ordinamento militare a tenere distinta l’ipotesi della perdita del grado per condanna ex art.866, da quella prevista all’articolo precedente per rimozione, che “è sanzione disciplinare di stato, adottata a seguito di apposito giudizio disciplinare per motivi disciplinari” (art. 865).
Solo in tale ultima ipotesi, invero, si sarebbe potuto censurare la riedizione, in tal caso sì illegittima, del potere disciplinare dell’Amministrazione.
Anche il terzo motivo di ricorso non merita dunque accoglimento.
3.4. Il ricorrente lamenta inoltre in subordine l’eccesso di potere in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione per travisamento dei presupposti ed ingiustizia manifesta, in quanto il citato art.866 fa seguire la perdita del grado ad una condanna definitiva non condizionalmente sospesa, presupposto che nella specie sarebbe invece mancato, in quanto la pena non era stata invero sospesa, quanto addirittura condonata e pertanto estinta.
Ne consegue, secondo tale linea difensiva, che una lettura ontologicamente orientata della norma non consentirebbe neanche nel caso di estinzione della pena di adottare il provvedimento della perdita del grado “atteso che il più (estinzione della pena) contiene il meno (sospensione della pena)”.
Invero, tale lettura muove dal presupposto errato di porre sullo stesso piano la sospensione condizionale della pena e l’indulto.
In realtà , seppure entrambi cause di esclusione della punibilità e quindi della possibilità di irrogare la pena, l’applicazione della prima sospende l’esecuzione tanto della pena principale che di quella accessoria e comporta, trascorso il termine previsto, l’estinzione del reato stesso (artt. 166, comma 1 e 167 c.p.); mentre l’indulto non opera sul reato, ma esclusivamente sulla pena principale e non estingue le pene accessorie, a meno che il provvedimento del giudice non disponga diversamente (art.174 c.p.).
Nel caso di specie, la pena della reclusione inflitta al ricorrente è stata immediatamente condonata nella sentenza di primo grado, poi confermata negli altri gradi di giudizio, mentre è rimasta efficace ed esecutiva quella accessoria interdittiva, come attestato dal certificato “stato di esecuzione”.
Pertanto, l’Amministrazione ha correttamente provveduto a disporre la perdita del grado e la cessazione dal servizio, effetto indiretto della pena accessoria rimasta ancora da eseguire, così come previsto dagli artt.866 e 923.
3.5. Non merita infine accoglimento l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata in via subordinata con l’ultimo motivo di ricorso.
La parte lamenta infatti che l’automatismo della cessazione del rapporto, previsto dall’art.923 D. Lgs. n. 66 in seguito alla perdita del grado disposta ex art.866 senza procedimento disciplinare, contrasterebbe con il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., col diritto al lavoro ex artt. 4 e 35 Cost., nonchè coi principi di buon andamento ed economicità della P.A.
Tuttavia, la scelta legislativa di disporre la perdita del grado e la conseguente cessazione dal servizio senza previo procedimento disciplinare, non appare in contrasto con i parametri costituzionali indicati dal ricorrente.
Come è stato già correttamente rilevato, “quanto all’art. 3 cost., non può certo ritenersi che la disposizione abbia reintrodotto un’ipotesi di estinzione automatica del rapporto di lavoro a seguito di condanna penale, senza previo giudizio disciplinare, in contrasto con il principio generale contenuto nell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (secondo cui “1. Il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. 2. àˆ abrogata ogni contraria disposizione di legge. La destituzione può essere sempre inflitta all’esito del procedimento disciplinare”). Ad escludere che la norma in questione possa essere invocata come tertium comparationis, sussistono due ordine di ragioni: – l’assimilazione della misura in questione alla disciplina prevista per la destituzione del pubblico impiegato in generale è esclusa dalle peculiarità delle funzioni assegnate alle forze dell’ordine, attinenti alla pubblica sicurezza e all’ordine pubblico, le quali richiedono, nell’apprezzamento ragionevole del legislatore, doti di rettitudine ben superiori a quelle richieste agli altri pubblici dipendenti; – gli effetti della perdita del grado non sono esattamente gli stessi della destituzione, considerata la già citata possibilità di reintegrazione nel grado.
Del resto, come osservato dalla stessa Corte Costituzionale (con sentenza 276/13), la previsione contenuta nel nuovo ordinamento militare rispecchia una linea legislativa particolarmente severa nei confronti dei reati contro la pubblica amministrazione, intrapresa a partire dalla legge 27 marzo 2001, n. 97 e caratterizzata dall’inasprimento delle pene e delle sanzioni accessorie per tale tipo di reati (cfr. anche il nuovo testo dell’art. 32-quinquies del codice penale).
Il richiamo operato ai parametri di cui agli artt. 4 e 35 Cost., nella sua genericità , non suscita alcun serio dubbio di costituzionalità . In termini generali, a escludere che la norma si ponga in contrasto con il diritto costituzionale al lavoro, sta la considerazione che il diritto al lavoro ben può essere modellato dal legislatore discrezionalmente in modo da tenere conto di altre esigenze costituzionalmente rilevanti, quale, nella specie, il buon andamento ed il prestigio della pubblica amministrazione” (Tar Lombardia, Mi, I, 1959 del 21.07.2014).
In ultimo, anche il riferito contrasto con il principio di buon andamento ed economicità della Pubblica Amministrazione non ha ragion d’essere, attesa proprio la ratio della misura in questione, relativa, come sopra visto, all’incompatibilità di mantenere in servizio un militare condannato all’interdizione dai pubblici uffici, e ciò al fine proprio di garantire l’esigenza di buon andamento, imparzialità ed economicità dell’Amministrazione.
4. Alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, il ricorso va respinto.
5. In considerazione dello svolgersi della vicenda processuale, le spese di lite possono essere compensate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Bari, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistono i presupposti di cui all’art. 52, commi 1,2 e 5 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, manda alla Segreteria di procedere, in caso di diffusione del provvedimento, all’annotazione di cui ai commi 1,2 e 5 della medesima disposizione.
Così deciso in Bari nella Camera di Consiglio del giorno 12 giugno 2014 con l’intervento dei magistrati:
Antonio Pasca, Presidente
Giacinta Serlenga, Primo Referendario
Paola Patatini, Referendario, Estensore
L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 16/09/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)