1. Processo amministrativo – Domanda risarcitoria – Termini – Art. 30 c.p.a. – Per questioni precedenti all’entrata in vigore del c.p.a. – Entro 120 giorni dall’entrata in vigore del c.p.a. – Ragioni
2. Risarcimento del danno – Da atto illegittimo – Violazione grave – Negligenza e imperizia – Onere della prova – Attenuazione
1. àˆ tempestiva la domanda risarcitoria conseguente ad una sentenza di annullamento dell’atto lesivo emanata prima dell’entrata in vigore della norma dell’art.30 del c.p.a. se, non essendo decorsa la prescrizione quinquennale, la stessa domanda sia stata proposta entro 120 giorni dall’entrata in vigore del c.p.a. (secondo il TAR, infatti, “la previsione decadenziale dell’art. 30 costituisce una novità assoluta del codice del processo amministrativo e, in difetto di specifiche disposizioni transitorie, non si può certo comprendere nel termine il tempo già trascorso prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina”).
2. A seguito dell’annullamento dell’atto illegittimo, il G.A. deve verificare, per ritener provata la conseguente richiesta risarcitoria, che la violazione risulti grave e che s’innesti in un contesto di negligenza e imperizia della p.A.; v’è, dunque, rispetto al regime privatistico ex art. 2043, un alleggerimento dell’onere probatorio a carico del ricorrente, tale che, una volta che il G.A. abbia accertato quanto sopra, spetta alla p.A. provare l’assenza di colpa.
N. 01047/2013 REG.PROV.COLL.
N. 02026/2010 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2026 del 2010, proposto da Pasquale Capezzuto, rappresentato e difeso dall’avv. Emilio Toma, con domicilio eletto in Bari, via Calefati, 133;
contro
Comune di Bari, rappresentato e difeso dall’avv. Giacomo Tarsia, con domicilio eletto in Bari, via Principe Amedeo, n. 334;
per l’accertamento
del danno subito dal ricorrente per le ragioni di cui in narrativa e la conseguente condanna del Comune di Bari.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Bari;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 maggio 2013 il dott. Giuseppina Adamo e uditi per le parti i difensori, avv. Emilio Toma e avv. Pietro Contursio, su delega dell’avv. Giacomo Tarsia;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’ingegner Capezzuto è stato affidatario (insieme con altri professionisti) dell’incarico di progettazione e (poi) di direzione dei lavori per il rifacimento e l’adeguamento degli impianti elettrici del Policlinico di Bari, a partire dall’anno 1990.
Nel 1995 veniva assunto dal Comune di Bari.
In particolare, l’avvio della direzione dei lavori, con inizio delle opere, veniva disposto con la delibera dell’Azienda ospedaliera Policlinico 27 gennaio 1997 n. 30.
L’interessato, in data 26 febbraio 1997, allora, presentava una prima istanza di autorizzazione per il predetto incarico, istanza accolta con delibera della Giunta municipale 2 settembre 1997 n. 2617.
In seguito l’Azienda ospedaliera comunicava all’ingegner Capezzuto, con nota datata 22 ottobre 1997 n. 7725, l’inizio dei lavori relativi all’ultimo stralcio (rete in media tensione dei residui padiglioni).
In data 22 novembre 1997, il ricorrente presentava all’Amministrazione municipale domanda di autorizzazione per lo svolgimento di tale successiva parte dell’incarico.
Con la nota 18 novembre 1998 prot. 11480-Ripartizione Personale-Settore gestione-, però, il Comune di Bari negava la proroga richiesta per dirigere i lavori presso il Policlinico.
Tale atto veniva impugnato dal dipendente con ricorso n. 427/1999.
L’istanza cautelare veniva respinta con ordinanza n. 185 del 25 febbraio 1999.
Nelle more del giudizio i lavori venivano ultimati e i compensi in gran parte liquidati agli altri quattro tecnici affidatari.
Ciò nonostante, avendo l’istante evidenziato la persistenza dell’interesse anche in una prospettiva risarcitoria, la causa veniva discussa all’udienza del 19 giugno 2008 e decisa, con esito di accoglimento, con sentenza della Sezione prima 3 luglio 2008 n. 1606. Essa, non impugnata, passava in giudicato.
Con il ricorso (da valere, all’occorrenza, anche gli effetti dell’articolo 112, comma quarto, del codice del processo amministrativo) notificato al Comune il 3 dicembre 2010 e depositato il 17 dicembre 2010, l’ingegner Capezzuto, essendo stato annullato l’atto pregiudizievole ed essendo passata in giudicato la sentenza, chiede il ristoro dei danni subiti che quantifica in € 672.666,12, nonchè in un’ulteriore somma pari al 5% della predetta per perdita di capacità professionale.
Si è costituito il Comune di Bari, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato.
In primo luogo eccepisce la tardività della domanda risarcitoria e la conseguente intervenuta decadenza ai sensi dell’art. 30 del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104; in secondo luogo, nel merito, contesta la sussistenza della colpa dell’amministrazione e, infine, sostiene l’esuberanza del quantum preteso in rapporto al concreto contenuto e agli effetti dell’atto annullato dalla sentenza n. 1606/2008.
Sulle conclusioni delle parti, sviluppate anche in memoria, la causa è stata riservata per la decisione all’udienza del 16 maggio 2013.
2.a. Innanzi tutto è da rigettare l’eccezione di tardività del ricorso e di decadenza dall’azione sollevata dal Comune in riferimento all’art. 30, terzo comma, del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 1043, per il quale il risarcimento per lesione di interessi legittimi dev’essere domandato “entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”.
La domanda, di cui al ricorso notificato al Comune il 3 dicembre 2010 e depositato il 17 dicembre 2010, è stata effettivamente proposta ben oltre il termine di 120 giorni dalla conoscenza del provvedimento lesivo (la nota del 18 novembre 1998). Occorre però tener presente che la previsione decadenziale dell’art, 30 costituisce una novità assoluta del codice del processo amministrativo e, in difetto di specifiche disposizioni transitorie, non si può certo comprendere nel termine il tempo già trascorso prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.
La domanda è, pertanto, tempestiva, poichè proposta non oltre 120 giorni dalla data di entrata in vigore della previsione normativa che ha introdotto il nuovo termine decadenziale (T.A.R. Liguria, Genova, Sez. II, 27 aprile 2012 n. 606). Nè era decorso il periodo quinquennale di prescrizione dal passaggio in giudicato della decisione del giudice amministrativo di annullamento dell’atto lesivo, termine che la giurisprudenza aveva individuato nel previgente regime (Adunanza Plenaria, 9 febbraio 2006 n. 2, p. 4) e che in concreto, come segnalato dalla stessa Amministrazione municipale, partiva dall’ottobre 2009 (visto che la pronuncia, pubblicata il 3 luglio 2008, non era stata notificata).
Passando al merito della controversia, per chiarezza espositiva conviene riportare la sentenza 3 luglio 2008 n. 1606, nella parte che qui interessa:
“2.b. Il ricorso è fondato.
Invero, è del tutto evidente che, a norma dell’articolo 1, comma 60, della legge 23 dicembre 1996 n. 662, all’epoca vigente, si sia formato il silenzio assenso” [sulla domanda di autorizzazione presentata in data 22 novembre 1997] “e che perciò, come dedotto dall’interessato, l’eventuale successivo provvedimento esplicito di rigetto” [ovvero la nota 18 novembre 1998 prot. 11480] “debba qualificarsi in termini di esercizio dell’autotutela, soggiacendo quindi alle regole tradizionalmente elaborate per tale tipo di atto, regole che, nel caso esaminato, sono state del tutto ignorate.
In proposito, le varie argomentazioni difensive sviluppate dall’Amministrazione resistente non possono essere condivise.
La circostanza che il ricorrente, dopo l’istanza del 22 novembre 1997, abbia inoltrato anche le note datate 16 settembre 1998 e 20 ottobre 1998 non può incidere sul meccanismo di formazione del silenzio-assenso legislativamente previsto come conseguente al mero decorso dal termine, costituendo al più tali lettere l’indice di un atteggiamento prudente del dipendente che, comunque, ad ogni buon conto, per evitare qualsiasi problema in futuro nell’ambiente di lavoro, sollecitava una presa di posizione esplicita dell’Amministrazione.
Ugualmente priva di pregio è l’osservazione che l’ingegner Capezzuto dovesse presentare una nuova richiesta di autorizzazione per l’incarico e non solo una domanda di proroga. Invero, nell’istanza autorizzatoria prodotta dall’interessato, il relativo oggetto era precisamente delimitato e descritto, nè risulta che siano disciplinate in maniera espressamente diversa le ipotesi (nuova istanza-proroga) individuate dalla difesa comunale.
Neppure è condivisibile l’interpretazione data dal Comune alla legislazione in materia che fa leva sulla nuova formulazione dell’articolo 58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, determinata dall’articolo 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80.
A prescindere dalla considerazione che il citato articolo 26 non sarebbe a stretto rigore, ratione temporis, applicabile alla fattispecie, come dianzi ricostruita (essendosi formato il silenzio-assenso trenta giorni dopo la presentazione dell’istanza del 22 novembre 1997), si deve constatare che tale norma non apporta alcuna significativa modificazione rispetto al nucleo problematico della vicenda, incidendo su aspetti che hanno solo una certa attinenza con le questioni affrontate.
In definitiva, l’invocato articolo 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80 si limita ad incidere su due punti: da un lato, chiarisce (elencandoli) i casi di attività (non gratuite) che si presumono del tutto compatibili con il rapporto di lavoro e quindi neppure assoggettate al regime autorizzatorio (esse, al contrario di quanto sostenuto dall’atto gravato, non costituiscono quindi in assoluto le uniche ipotesi di attività compatibili); dall’altro, distingue tra incarichi conferiti da amministrazioni pubbliche e incarichi conferiti da privati, mantenendo solo per i primi il silenzio assenso, previsto dall’articolo 1, comma 60, della legge 23 dicembre 1996 n. 662.
Per il resto la disciplina sostanziale riguardante l’autorizzabilità o meno di incarichi rimane legata alla “consolidata prassi applicativa della disciplina generale (risalente all’articolo 60 del D.P.R. n. 3 del 1957 e confermata anche dall’articolo 58 del D.Lgs. 29 del 1993)”, come ribadito dall’articolo 6 della circolare 19 febbraio 1997, n. 3/97 (“Legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 56/65: tempo parziale e disciplina delle incompatibilità “) della Presidenza del Consiglio dei Ministri -Dipartimento della funzione pubblica e gli affari regionali.
Tale atto, anch’esso richiamato dal Comune a sostegno delle proprie argomentazioni, sulla premessa che l’amministrazione “continuerà ad attenersi ai propri consolidati indirizzi…rammenta soltanto… che.. le attività extra istituzionali sono da considerarsi incompatibili quando:
1. oltrepassano i limiti della saltuarietà e occasionalità ;
2. si riferiscono allo svolgimento di libere professioni”.
Nella fattispecie concreta, il Comune non porta alcun elemento convincente per dimostrare che il singolo incarico di direzione lavori, affidato da una pubblica amministrazione a ben 5 professionisti, possa costituire un’attività stabile e l’esercizio di una vera e propria libera professione, caratterizzata questa dalla potenziale offerta abituale a committenti indeterminati delle proprie prestazioni intellettuali, in generali condizioni di autonomia.
Di conseguenza, il provvedimento censurato, oltre a non superare il vaglio di legittimità dal punto di vista formale (per la precedente formazione del silenzio-assenso, come già esposto), non appare giustificato neppure sotto un profilo strettamente sostanziale”.
Dal tenore della sentenza della prima Sezione si evincono con chiarezza le ragioni per le quali non è possibile condividere l’assunto dell’Amministrazione, secondo la quale le circostanze concrete determinerebbero in proprio favore una esimente piena, non sussistendo alcun elemento da cui possa desumersi una qualunque colpa nella propria condotta.
àˆ vero che, secondo la giurisprudenza, la mera illegittimità dell’attività provvedimentale non può costituire presupposto sufficiente per l’attribuzione di tutela risarcitoria, ove non sussista l’elemento soggettivo dell’illecito sub specie (quanto meno) della colpa.
Tuttavia, per tale riscontro, il giudice deve in sostanza verificare se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità , correttezza e buona fede alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell’amministrazione per danni conseguenti a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato e negarla quando l’indagine presupposta conduca al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (Cons. Stato Sez. III, 15 luglio 2011, n. 4333; Sez. V, 14 settembre 2012, n. 4894; Sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 23).
Questa verifica s’inquadra dunque nell’ambito di un particolare regime – rispetto a quello generale ex art. 2043 del codice civile – che perviene a un sostanziale alleggerimento dell’onere probatorio incombente sul privato, in forza del quale, una volta accertata l’illegittimità dell’azione della p.a., è a quest’ultima che spetta di provare l’assenza di colpa, attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l’inesigibilità di una condotta alternativa lecita (Cons. Stato, Sez. V, 8 settembre 2008, n. 4242; Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 14; 27 aprile 2010, n. 2384; Sez. V, 18 novembre 2010, n. 8091; 6 dicembre 2010, n. 8549; Sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482).
Pur evitando d’inquadrare sistematicamente e compiutamente i riflessi sulla questione della disciplina europea soprattutto in materia dei contratti pubblici, come interpretata dopo la pronuncia Stadt Graz della Corte di giustizia dell’Unione europea (30 settembre 2010, C-314/09), sulla cui portata e valenza si è soffermata la Sezione quinta del Consiglio di Stato, nella decisione 8 novembre 2012, n. 5686, l’orientamento giurisprudenziale sopra riferito ha consentito all’Adunanza plenaria (sentenza 19 aprile 2013, n. 7) di giungere ad alcune conclusioni sul tema. In particolare, la medesima ha definito “coerenti con i princìpi di cui all’art. 2729 cod. civ. le applicazioni giurisprudenziali in materia di colpa della pubblica amministrazione, di natura normativa e non psicologica, presunta in relazione all’accertata illegittimità dell’atto amministrativo in base alle allegazioni del danneggiato della violazione di norme di diritto o dei princìpi della funzione pubblica, cioè entro i confini dell’allegazione dei fatti”.
Sulla scorta di tali indirizzi ermeneutici (al contrario di quanto dedotto dal Comune di Bari), è evidente che non è riscontrabile nella fattispecie concreta alcun’esimente per l’Amministrazione. Dalla sentenza della prima Sezione 3 luglio 2008 n. 1606 si ricava del tutto agevolmente che, sebbene la disciplina sull’autorizzazione al dipendente pubblico fosse stata modificata (rispetto a quella delineata dall’articolo 60 del D.P.R. n. 3 del 1957 e dall’articolo 58 del D.Lgs. 29 del 1993, ad opera dell’articolo 1, commi 56-65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), tale modifica non si applicava ratione temporis all’istanza presentata dall’ingegner Capezzuto. La più recente normativa inoltre non apportava significative novità (in ogni caso, ambedue i regimi prevedevano ugualmente la formazione del silenzio assenso) e non presentava particolari problemi interpretativi, ponendosi in continuità con la quella precedente.
La pronuncia della prima Sezione perciò finiva per affermare che “il provvedimento censurato, oltre a non superare il vaglio di legittimità dal punto di vista formale (per la precedente formazione del silenzio-assenso, come già esposto), non appare giustificato neppure sotto un profilo strettamente sostanziale”, non essendo stato fornito dalla parte resistente “alcun elemento convincente per dimostrare che il singolo incarico di direzione lavori, affidato da una pubblica amministrazione a ben 5 professionisti, possa costituire un’attività stabile e l’esercizio di una vera e propria libera professione”, situazione questa che, se provata, avrebbe potuto, nel rispetto delle garanzie procedimentali, supportare un eventuale rifiuto.
Il Collegio dunque deve occuparsi a tal punto della liquidazione del danno.
Il ricorrente al proposito produce le fatture di uno dei quattro professionisti affidatari e su queste imposta un calcolo, al fine di dimostrare il quantum del nocumento subito a seguito dell’azione amministrativa, per il quale l’importo globale corrisposto agli stessi (€ 3.363.330,62 risultante dal compenso individuale, attestato in fattura, x 4) viene suddiviso tra gli originali cinque componenti del gruppo (con il risultato di € 672.666,12).
L’Amministrazione municipale eccepisce che invero la mancata autorizzazione (nei limiti delineati dalla richiesta avanzata 22 novembre 1997 dall’ing. Capezzuto) si riferisca unicamente alla direzione dei lavori nel periodo previsto nell’istanza; la medesima (su cui si era formato il silenzio assenso) precisava chiaramente: “il tempo previsto per l’intera direzione dei lavori del progetto generale … è pari a gg. 700 e la presunta parcella è pari a Lit. 180.000.000”.
Ciò comporterebbe, secondo il ragionamento della parte resistente, sviluppato nella comparsa di costituzione 3-4 gennaio 2001, alle pagg. 8-10, che dovrebbe calcolarsi esclusivamente il compenso per la direzione dei lavori e solo per 700 giorni, essendosi formato solo su tale richiesta il silenzio assenso. In particolare dovrebbe essere stralciato dall’importo indicato dal dipendente quello relativo alla redazione delle perizie di variante pari ad € 357.802,85 (non computabile).
In sostanza, le somme eventualmente dovute, a titolo di risarcimento, sarebbero costituite (detratto quanto già liquidato sino al 18 novembre 1998) dal compenso per la direzione dei lavori maturato dal 18 novembre 1998 al 22 novembre 1999, pari ad € 96.606,00 (ovvero un quinto dell’importo complessivo di € 386.424,00, risultante dalla detrazione).
Considerato che l’ingegner Capezzuto (pur riaffermando che il suo incarico comprendeva le eventuali perizie di variante) non ha specificato i relativi tempi di prestazione dell’attività professionale e neppure le modalità di ripartizione interna tra i professionisti dei compensi cumulativi liquidati definitivamente nel 2002 (come risulta dalla deliberazione del Direttore generale dell’Azienda ospedaliera Policlinico 23 maggio 2003 n. 485), il calcolo effettuato dal Comune si presenta congruo e plausibile rispetto alle deduzioni e allegazioni del richiedente.
Di conseguenza, può essere riconosciuto il diritto del ricorrente al pagamento di tale somma, a titolo di risarcimento del nocumento subito per l’illegittima azione amministrativa, con conseguente condanna dell’Amministrazione municipale al pagamento, a titolo di risarcimento, (detratto quanto già liquidato sino al 18 novembre 1998) delle somme, costituenti il compenso per la direzione dei lavori maturato dal 18 novembre 1998 al 22 novembre 1999, pari ad € 96.606,00 (ovvero ad un quinto dell’importo complessivo di € 386.424,00, risultante dalla detrazione).
Per quanto riguarda la domanda di ristoro del danno curriculare (determinato dall’impossibilità , per l’ingegnere, d’indicare l’incarico in questione nel proprio curriculum, al fine di ottenere successivi incarichi professionali), da liquidare in via equitativa, la medesima dev’essere respinta.
Da un lato, infatti, non è chiaro quale sia l’entità della prestazione professionale non svolta e perciò non menzionabile; dall’altro, la richiesta presenta elementi d’incompatibilità con la stessa impostazione di questo ricorso, del precedente n. 427/1999 e della sentenza 3 luglio 2008 n. 1606, che facevano tutti leva sulla saltuarietà e occasionalità delle attività extra-istituzionali svolte dal dipendente comunale, che, non essendo (e non potendo essere) stabili, non possono qualificarsi come esercizio di un’ordinaria libera professione.
Il ricorso dunque è d’accogliere nei limiti anzidetti.
Le spese seguono la soccombenza, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia (Sezione seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, per gli effetti, nei limiti e nella misura di cui in motivazione.
Condanna il Comune di Bari al pagamento delle spese di lite in favore dell’ing. Pasquale Capezzuto, nella misura di € 2.500,00, oltre CU, CPI e IVA, come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2013 con l’intervento dei magistrati:
Sabato Guadagno, Presidente
Giuseppina Adamo, Consigliere, Estensore
Marco Poppi, Primo Referendario
L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 28/06/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)