1. Risarcimento del danno – Danno da mancato rilascio di titolo abilitativo – Prova dell’asserito danno patrimoniale – Fattispecie
2. Risarcimento del danno – Danno da silenzio-inadempimento – Diligenza del creditore – Mancato esperimento mezzi di tutela – Interruzione del nesso causale – Conseguenze

1. Laddove venga spiegata domanda volta a ottenere il ristoro dei danni subiti a causa del mancato rilascio del titolo edilizio e tale danno venga identificato nella conseguente necessità  di realizzare l’intervento costruttivo in altro comune, l’onere, gravante sul danneggiato, di provare il danno patito non può considerarsi assolto dalla mera deduzione delle spese sostenute per la realizzazione della costruzione in diverso agro, dovendosi per contro allegare e dimostrare la deminutio patrimoniale subita a causa della delocalizzazione dell’opera in parola.
2. In tema di ristoro del danno da silenzio-inadempimento, il mancato esperimento del ricorso giurisdizionale avverso l’inerzia serbata dalla P.A integra violazione dell’obbligo di cooperazione, gravante sul creditore dannegiato ex art. 1227 c.c., trattandosi di un agile strumento processuale che richiede il solo accertamento dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, senza necessità  di dimostrare gli altri elementi invece prescritti a fini risarcitori: sicchè la scelta di non avvalersene interrompe il nesso causale e impedisce il risarcimento del danno in conseguenza eventualmente patito.

N. 00943/2012 REG.PROV.COLL.
N. 01904/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1904 del 2009, proposto da: 
P.D.C. S.p.A., rappresentata e difesa dall’avv. Carlo Teot, con domicilio eletto presso Gaetano Castellaneta in Bari, via Calefati nn.177 – 194; 

contro
Comune di Altamura, rappresentato e difeso dall’avv. Emilio Bonelli, con domicilio eletto presso Emilio Bonelli in Bari, Segreteria Tar – P.zza Massari, n. 6; 

per il risarcimento del danno,
pari ad Euro. 2.000.000,00, derivante dal mancato rilascio della concessione edilizia n. 484/01.
 

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Altamura;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 27 aprile 2012 il dott. Desirèe Zonno e uditi per le parti i difensori avv. Pasqua Cirrottola, su delega dell’avv. C. Teot e avv. Emilio Bonelli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 

FATTO e DIRITTO
Espone in fatto la società  ricorrente che la Contempo spa (ora P.D.C. spa), in data 28.3.2001, ha presentato istanza di concessione edilizia per la realizzazione di un opificio industriale, la cui costruzione era funzionale alla riscossione dei benefici ex l. 488/92.
Benchè il Comune avesse addirittura richiesto il pagamento della prima e seconda rata degli oneri di urbanizzazione – la prima delle quali anche versata dalla allora richiedente- , indicando nella relativa richiesta il numero del provvedimento concessorio (n. 484/2001), questo non è stato mai rilasciato, sicchè la richiedente si sarebbe vista costretta a delocalizzare l’opificio in contrada di altro comune, sostenendo i relativi costi.
La ricorrente domanda – dopo aver adito il Giudice ordinario che ha definito la controversia con pronuncia declinatoria della giurisdizione- il risarcimento dei danni patiti per la violazione del ragionevole affidamento generato dall’amministrazione nel rilascio della concessione.
Il Comune si è difeso, allegando che il mancato rilascio è difeso esclusivamente dal comportamento della richiedente, per non aver mai realizzato le convenute opere di urbanizzazione primaria, poste a suo carico nella convenzione di lottizzazione ed anche autorizzate con provvedimento n. 441/2003.
All’udienza del 27.4.2012 la causa è stata trattenuta in decisione.
La domanda non può che essere qualificata, anche alla luce del complessivo contenuto del ricorso e delle allegazioni del pregiudizio patito, come domanda finalizzata ad ottenere il ristoro dei danni conseguenti il mancato rilascio della concessione richiesta.
Non sarebbe dato, infatti, comprendere in cosa consista la differenza tra pregiudizio derivante dalla violazione del ragionevole affidamento nel rilascio della concessione e pregiudizio per il mancato rilascio della stessa.
D’altro canto, tra i motivi di ricorso la PDC espressamente deduce la violazione dell’obbligo di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento espresso, sicchè la qualificazione dell’istanza risarcitoria non può che avvenire nei termini indicati.
Tanto premesso, la domanda risarcitoria, a prescindere dalla disamina dell’eccepita mancata realizzazione – come dianzi detto- delle opere di urbanizzazione primaria, poste a carico della ricorrente nella convenzione di lottizzazione ed anche debitamente autorizzate, non può comunque trovare accoglimento per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo il danno patito non è stato provato.
La ricorrente ha, infatti, dedotto (e neppure dimostrato) gli esborsi subiti in seguito al mancato rilascio della concessione edilizia agognata connessi alla realizzazione di altro capannone industriale, ma non ha neppure allegato la deminutio patrimoniale subita a causa della delocalizzazione (in agro del comune di Grumo Appula) dell’opera in questione.
Risulta del tutto evidente, infatti, che il mero esborso della somma per la realizzazione dell’opera in diverso agro ovvero per la locazione di altro capannone industriale non coincide con l’eventuale danno patito, dovendosi puntualmente allegare (e dimostrare) in che misura tale variazione della situazione giuridica del ricorrente, causata dall’inerzia dell’Ente comunale abbia condotto ad una diversa consistenza patrimoniale dell’asserito danneggiato (nella forma del decremento patrimoniale ovvero del mancato guadagno).
Tanto consegue dalla considerazione che un esborso per la realizzazione dell’originaria struttura in agro del comune di Altamura avrebbe, comunque, condotto ad una spesa per la sua realizzazione, spesa che potrebbe essersi risolta in un costo del tutto analogo a quello sostenuto per la realizzazione dell’opera in altro sito ovvero per la sua locazione.
A tali ragioni se ne aggiunge una ulteriore e dirimente che trova la sua giustificazione nei principi espressi dall’Adunanza Plenaria con sentenza n. 3/2011.
Il ricorrente pretende il risarcimento dei danni patiti a seguito del mancato rilascio della concessione.
La società , tuttavia, non risulta abbia mai azionato i poteri regionali sostitutivi per il rilascio dell’atto richiesto ovvero abbia proposto ricorso giurisdizionale per ottenere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere sull’istanza di rilascio della concessione edilizia, eventualmente chiedendo anche l’accertamento della fondatezza della pretesa.
La proposizione tempestiva di tale iniziativa giurisdizionale avrebbe evidentemente consentito alla società  di ottenere il bene della vita richiesto oppure di insorgere (laddove il procedimento si fosse concluso con un diniego) avverso il provvedimento reiettivo.
Ciò avrebbe consentito di ottenere la tutela reale oggi chiesta in via risarcitoria ovverosia il bene della vita, il cui mancato ottenimento viene paventato quale causa dei danni asseritamente patiti.
Parafrasando le parole della già  citata decisione (A.P. n. 3/2011) “il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità  di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione ( ovvero dell’omessa proposizione del ricorso ex art. 21 bis l. Tar, ora art. 31 c.p.a., n.d.e.) come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità  dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso (ovvero della mancata conclusione del procedimento, causativa di danni, n.d.e.).”
L’art. 30, comma 3, del codice dispone, infatti, al secondo periodo, che, nel determinare il risarcimento, “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
“La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà , ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza.”
L’Adunanza Plenaria, pur consapevole dell’inapplicabilità  delle norme di natura sostanziale del codice, entrato in vigore il 16 settembre 2010, ad una fattispecie ed ad un giudizio risalenti ad epoca anteriore, ha peraltro reputato che la disciplina ora analizzata pervenga ad una soluzione interpretativa, estensibile a situazioni anteriori in quanto ricognitiva di principi evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in vigore del codice.
In altri termini ha reputato che entrambi i principi affermati dal d.lgs. n. 104 del 2010 – quello dell’assenza di una stretta pregiudiziale processuale e quello dell’operatività  di una connessione sostanziale di tipo causale tra rimedio giurisdizionale e azione risarcitoria – fossero ricavabili anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata in vigore del codice.
L’Adunanza ha affermato, per ciò, che la regola della non risarcibilità  dei danni evitabili con la diligente utilizzazione e degli strumenti di tutela anche giurisdizionale previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, sia ricognitiva di principi già  evincibili alla stregua di un’ interpretazione evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 cit.
“In questo quadro la norma introduce un giudizio basato sulla cd. causalità  ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza. Si vuole, a questa stregua, circoscrivere il danno derivante dall’inadempimento entro i limiti che rappresentano una diretta conseguenza dell’altrui colpa.” (così A.P.cit.)
La sentenza ha altresì affermato che “risulta così superato il tradizionale indirizzo restrittivo secondo il quale il canone della «diligenza» di cui all’art. 1227, comma 2, imporrebbe il mero obbligo (negativo) del creditore di astenersi da comportamenti volti ad aggravare il danno, mentre esulerebbe dallo spettro degli sforzi esigibili la tenuta di condotte di tipo positivo sostanziantesi in un facere. La giurisprudenza più recente, muovendo dal presupposto che la disposizione in parola non è formula meramente ricognitiva dei principi che governano la causalità  giuridica consacrati dall’art. 1223 c.c. ma costituisce autonoma espressione di una regola precettiva che fonda doveri comportamentali del creditore imperniati sul canone dell’ auto-responsabilità , ha, infatti, adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell’art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno).”
Si è, dunque, giunti alla rivisitazione dell’indirizzo che esclude le condotte processuali dal principio dell’esigibilità  ex bona fide.
Applicando detto criterio interpretativo, si deve allora ritenere che il mancato esercizio di un agile strumento processuale (quale l’azione dichiarativa dell’obbligo di provvedere) può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136) .
Nella specie assume un ruolo decisivo la considerazione che la tecnica di tutela non praticata, quella di accertamento dell’obbligo di provvedere, se si eccettua il profilo del termine decadenziale, non implica costi ed impegno superiori a quelli richiesti per la tecnica di tutela risarcitoria, ed anzi si presenta più semplice e meno aleatoria nella misura in cui richiede il solo riscontro della presenza dell’obbligo di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento espresso, senza richiedere la dimostrazione degli altri elementi invece necessari a fini risarcitori, quali l’elemento soggettivo, il duplice nesso eziologico nonchè l’esistenza e la consistenza del danno risarcibile in base ai parametri di cui agli artt.1223 e seguenti del codice civile.
La scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa avrebbe sicuramente evitato, in tutto o in parte il danno ed integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile.
Deve allora darsi risposta alla duplice domanda se la condotta della società  ricorrente abbia integrato violazione del canone comportamentale cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c. (oggi recepito dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo) ed abbia spiegato un effetto eziologico nella produzione di un danno altrimenti evitabile.
Il Collegio ritiene che vada data risposta positiva ad entrambe le questioni perchè l’impresa ha reagito con atto di citazione innanzi al Giudice civile solo il 28 maggio 2007, ossia dopo oltre 6 anni dalla data di deposito della richiesta di concessione.
La totale inerzia osservata nella coltivazione di rimedi giudiziali e di iniziative stragiudiziali (non risulta che siano stati neppure attivati i poteri sostitutivi regionali), integra, alla luce della gravità  degli effetti lesivi denunciati, una chiara violazione degli obblighi cooperativi che gravano sul creditore danneggiato.
Quanto al profilo eziologico i danni lamentati (laddove davvero esistenti) sarebbero stati in toto evitati se la società  si fosse tempestivamente avvalsa degli strumenti di tutela predisposti all’uopo dall’ordinamento.
Alla stregua delle considerazioni che precedono la domanda risarcitoria non può essere accolta.
Posto che la pronuncia è fondata su di un orientamento giurisprudenziale inaugurato successivamente alla proposizione del ricorso, sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese integralmente compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità  amministrativa.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 27 aprile 2012 con l’intervento dei magistrati:
 
 
Sabato Guadagno, Presidente
Antonio Pasca, Consigliere
Desirèe Zonno, Primo Referendario, Estensore
 
 
 
 

 
 
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
 
 
 
 
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 16/05/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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